I “deportati” messicani dagli Stati Uniti nell’ultimo anno sono oltre 60mila. Molti di loro erano arrivati con l’ondata migratoria degli anni 90. Ora sono costretti a vedere i propri familiari attraverso le fessure di un muro

«Aspettiamo la nebbia. Nella notte cala densa e fitta. Le telecamere di sorveglianza non riescono a vederci, scavalchiamo il muro e passiamo negli Stati Uniti». Juan è del Salvador, viveva come irregolare negli Stati Uniti. Ha commesso un piccolo reato e dopo aver scontato la pena è stato espulso perché non era in possesso di documenti regolari. È stato “deportato” da qualche giorno a Tijuana. È giovane, indossa una felpa scura con il cappuccio, jeans e scarpe da ginnastica. Non vuole saperne di restare qui, cercherà in tutti i modi di ritornare dalla moglie e dai figli anche a costo di varcare “il confine” illegalmente. «Vedi, si può scavalcare qui – urla Juan dall’alto, a cavalcioni sulla barriera di metallo dove si è appena arrampicato in poche mosse – è facile salire in cima e scendere dall’altra parte. Poi bisogna correre veloci sul bagnasciuga così le guardie non riescono a vedere le impronte perché l’acqua del mare le cancella». In alcuni periodi dell’anno, dalle dieci di sera fino all’alba, Tijuana viene avvolta da una fitta nebbia. Lì, dove il muro si perde nel mare, i migranti e i deportati tentano la fuga.
Juan è seduto sulla sabbia, al buio, con il cappuccio sulla testa. Ci sono le telecamere, cerca di non farsi notare. Mette la testa tra le mani e guarda tra le fessure. Dall’altra parte si vede il mare, la spiaggia, il territorio americano. Le onde passano tra le barriere di metallo del muro, l’acqua scorre da una parte all’altra del muro. «Di là ho la mia famiglia e i miei figli – dice – io qui non voglio stare. Voglio andare da loro a tutti i costi». Rimane lì, Juan, a guardare oltre le sbarre di quel muro che l’indomani cercherà di scavalcare. Come…

Il reportage di Cristina Mastrandrea prosegue su Left in edicola


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