Pilade Cantini, poliedrico esponente della provincia rossa, crea una versione in ottava rima del celebre manifesto comunista. Già autore di Piazza Rossa. La provincia toscana ai tempi dell’Urss ed animatore di esperienze come l’associazione Il resto del Cremlino ed il gruppo musical-teatrale degli Aereoflot. Collettivo Radio Mosca sublima in questo cimento l’altro filone di interessi che lo ha da sempre contraddistinto, il filone popolare dell’ottava rima, dei contrasti, degli stornellatori e dei maggianti, sulle orme del primo Benigni e di Carlo Monni (al quale ha dedicato il volume Carlo Monni, balenando in burrasca) .
Il suo nuovo Il manifesto del partito comunista in ottava rima si compone di ottave nelle quali viene mirabilmente esposta in veste popolare – ma rigorosa dal punto di vista del contenuto – la quintessenza del marxismo. In realtà il ma avversativo è fuori luogo, perché spesso proprio dai lavori divulgativi sono scaturite interpretazioni ineccepibili che hanno mosso all’azione e fatto conoscere oltre i ceti colti le opere dei fondatori del comunismo scientifico, come il Compendio del Capitale di Carlo Cafiero e una delle prime versioni del Manifesto a cura di Pietro Gori nel 1891.
Nella terza ottava viene icasticamente resa la teoria del materialismo storico, “Da quando l’uomo è nato ed esistito / e sulla Terra ha mosso i primi passi / la storia – questo fatto è definito – / è sempre stata lotta tra le classi”, il cui sviluppo e antagonismo può condurre sia al progresso ed alla trasformazione che alla barbarie. Il tempo moderno rappresentato dall’industria semplifica ulteriormente le stratificazioni sociali inaugurando la polarità borghesia-proletariato, sussumendo il lavoro in ogni sua forma alla dimensione di merce, come si legge nella quinta ottava: “Il capitale, senza ipocrisia, / in merce ogni persona ha trasformato, / che faccia il pane o canti la poesia”. Ma il lettore potrà gustare di persona la sapienza della resa, assieme agli scritti storico-politici, antropologici e narrativo-letterari che impreziosiscono il volumetto, per la penna di Simona Baldanzi, Mario Caciagli, Guido Carpi, Max Collini, Carlo Lapucci e Federico Maria Sardelli. A noi preme rimarcare che Cantini ricorre ad una tradizione plurisecolare per dare nuova linfa al Manifesto, affidandogli una diffusione scritta che è funzionale ad una utilizzazione orale, pubblica, conviviale, proprio quando la provincia rossa della quale è esponente, narratore e storico declina e scompare. Proprio il professor Mario Caciagli descrive e sancisce la fine del mondo narrato da Pilade nel suo Piazza Rossa ne Addio alla provincia rossa. Origini, apogeo e declino di una cultura politica, (Carocci 2017), dedicato proprio alla zona del Cuoio narrata dallo “scrittore di Ponte a Egola”, giudizio confermato dall’esaustivo lavoro di Marco Almagisti sulla scomparsa della subcultura bianca in Veneto e di quella rossa in Toscana. Un patrimonio che originerebbe per alcuni addirittura dall’età comunale, che si alimenta dalla diffusione del socialismo municipale, che si radica nel mondo mezzadrile nei primi anni del Novecento nelle due tornate degli anni Dieci e Trenta, socialista prima e comunista dopo, grazie anche al ruolo di coerente forza antifascista svolta dal Pci clandestino. In realtà forse occorrerebbe rifarsi anche alla tradizione giacobina, latomistica ed anticlericale delle elités toscane del Settecento, così come all’evoluzione in senso socialista delle simpatie e delle forze mazziniane mediate dal mito del Garibaldi, esemplato a sua volta su quello del Cristo socialista, ricorrente nella pubblicistica toscana del 1848 per mano di propagandisti evangelici ma presente nella millenaria voglia di riscatto delle masse contadine, come l’esperienza di Davide Lazzeretti, il Cristo dell’Amiata cui lo stesso Gramsci prestò attenzione, ben dimostra. Ma di fronte ad un mondo che scompare si può scegliere: assistere impotenti oppure elaborato il lutto tornare alla pugna. Così come facevano e fecero i poeti contadini che attraversavano le campagne toscane, politicizzando le regressive veglie sull’aia, mischiandosi agli agitatori anarchici e socialisti che animavano gli altri luoghi della socialità popolare, le osterie e i barbieri soprattutto. E il mio pensiero va ad uno straordinario protagonista delle mie terre, Libero Falorni di Castelfiorentino, che ci ha regalato nelle sue Memorie della libertà preziose gemme di che tempra fossero gli uomini e le donne migliori d’Italia. Comunista, dirigente politico e militare della Resistenza, rimasto sotto le macerie per un bombardamento, militante della Cgil degli anni Cinquanta dove scioperava da solo nel suo posto di lavoro, rifiutando la proposta del partito di esser deputato o senatore per la modestia che ha sempre contraddistinto – fino a che ci sono stati – i comunisti di questo Paese. E leggendo il Manifesto in ottava rima di Pilade Cantini la mente che non erra, la memoria, mi ha fatto andare a Libero. All’osteria socialista distrutta dai fascisti, alla voglia di sapere e di libertà che lo spinse ad imparare le lingue per leggere la stampa degli altri Paesi, al dono che mi fece delle opere di Idalberto Targioni, poeta estemporaneo, sindaco socialista di Lamporecchio, agitatore straordinario tra mezzadri e contadini proprio attraverso gli strumenti della poesia e dell’ottava che Pilade ci ripropone. Di come fu un vero dramma familiare quando il Targioni da fervente socialista divenne, attraverso l’adesione all’interventismo, fascista. Ma questa è un’altra storia. Occorre, scomparso il Partito, l’Urss e il buongoverno della sinistra anche in Toscana, tornare ad alimentare quel mare carsico di aspirazioni all’eguaglianza che aveva costituito l’humus nel quale avevano prosperato e resistito i filoni anarchici, socialisti e comunisti, come ben ebbe a dire Ernesto Ragionieri e come, con la stessa metafora dei fiumi che possono anche scomparire alla vista ma giungono prima o poi al mare, l’amato segretario della Cgil Giuseppe Di Vittorio nell’ultimo suo intervento pubblico. Perché all’uguaglianza si leghi sempre la libertà, come Cantini fa chiudere un’ottava, la settima, con una resa degna dell’Ariosto: “ognun di libertà colga i suoi frutti / perché la libertà la colgan tutti”. Buona lettura.