La legge di bilancio 2018 accoglie norme per risolvere l'odissea infinita del precariato. Ma bisogna continuare a vigilare. Anche perché l'Italia non riconosce il valore della musica e dei suoi musicisti. L'intervento del jazzista Paolo Tombolesi

Nella legge di bilancio 2018 sono state inserite delle norme volte alla risoluzione del precariato nelle istituzioni Afam (Alta formazione artistica, musicale e coreutica). Della vicenda si era occupato Left nel numero del 9 dicembre con un articolo intitolato “Schiaffo del governo ai precari”. Nei giorni successivi poi c’era stata una grande mobilitazione del settore che ha portato al coronamento di lotte decennali condotte da docenti con ben oltre dieci anni di servizio alle spalle e un’età media di cinquanta anni, che ormai costituiscono circa un quarto del personale docente Afam. Ora bisognerà vigilare affinché il Miur applichi la legge in tempi e modi ragionevoli, e c’è da augurarsi che questi provvedimenti segnino l’inizio di un rinnovato interesse per accademie e conservatori, in questi anni abbandonati dalla politica al loro destino.

Per operare nella giusta direzione sono convinto che saranno necessarie riflessioni e analisi per comprendere come mai nel nostro Paese l’arte, la musica e la cultura in generale contino così poco.
Per quello che riguarda il mio settore, quello musicale, c’è da dire che l’Italia è tuttora considerata nel mondo un punto di riferimento per il contributo fondamentale che fino al XVIII secolo ha dato alla musica occidentale; basti pensare che la notazione musicale è nata qui e l’italiano è la lingua internazionale per la terminologia tecnica. Con l’avvento del colonialismo, della rivoluzione industriale e della rivoluzione francese nelle nazioni del nord Europa vi fu uno sviluppo economico, sociale e culturale repentino. La musica, che fino a quel momento era stata appannaggio della nobiltà e del clero, iniziò a essere promossa dalla borghesia emergente, cui si devono la diffusione delle orchestre sinfoniche e la nascita delle società dei concerti. Ciò ebbe delle ricadute anche sugli strati sociali più bassi, portando a una grande diffusione delle pratiche musicali. L’Italia non fu toccata che marginalmente da questi processi storici, e per i compositori italiani l’unica possibilità di continuare a esprimersi con successo fu scrivere per il teatro musicale.

Ad ostacolare ulteriormente il diffondersi delle pratiche musicali tra la popolazione vi fu la determinazione con cui la Chiesa cattolica, al contrario di quelle protestanti, ha sempre osteggiato l’utilizzo di strumenti musicali che non fossero l’organo o la voce nei luoghi di culto. Agli inizi del ‘900 eravamo uno Stato unitario da pochi anni, afflitto dall’emigrazione e con tasso di analfabetismo enorme rispetto al resto d’Europa. Il problema fu affrontato con la riforma della scuola del 1923, che rispecchiava il pensiero elitista del filosofo idealista Giovanni Gentile, suo principale artefice. Il Liceo classico, destinato a formare la classe dirigente, era la scuola da cui il “fare” era bandito, dove si studiava Storia dell’arte senza mai impugnare una matita. Bastava scendere di un gradino, al Liceo scientifico, e allo studio della Storia dell’arte si affiancava la pratica del disegno, per arrivare fino alle scuole professionali, dove le attività manuali prendevano il sopravvento. La musica era comunque assente da tutte le scuole, in quanto considerata un mero svago, e non un’esperienza e una possibilità di espressione da garantire a tutti i cittadini. Nel 1930 i vecchi conservatori di musica furono integrati in un sistema nazionale con programmi comuni, ma ai diplomi non venne riconosciuto valore di laurea, e nemmeno di diploma di maturità.

I primi conservatori erano nati a Napoli alla fine del XVI secolo sulla falsariga dell’attività di più antiche istituzioni di beneficenza nelle quali si garantiva un futuro a orfani e trovatelli insegnandogli un mestiere. Alle attività artigianali, insegnate dal “mastro” (da cui l’appellativo “maestro” oggi usato per i musicisti), si affiancarono presto quelle musicali, dato che nel XVII secolo si aprivano prospettive di lavoro in questo campo. Alla fine del XVIII secolo, quando l’esercito francese occupò Napoli, la scuola musicale napoletana, sviluppatasi nel Conservatorio della pietà dei Turchini, era considerata una delle massime eccellenze europee per la formazione musicale. I francesi, affascinati dal modello italiano, tanto da fondare nel 1795 a Parigi il Conservatoire National de Musique et de Déclamation, non condividevano però l’impostazione didattica italiana, basata sulla vecchia pratica artigianale in cui l’esempio del maestro e la pratica precedevano lo studio teorico, incoraggiando gli studenti a mettere le mani sugli strumenti musicali prima di saper leggere o scrivere la musica.

Nella Francia illuminista si stavano diffondendo pratiche pedagogiche basate sull’idea che ogni disciplina degna di studio necessitasse di un metodo razionale, e che nell’apprendimento lo studio della teoria dovesse essere anteposto alla pratica, confondendo conoscenza e classificazione con quell’esperienza grandemente inconsapevole che porta dall’ascolto del suono alla capacità di produrlo usando il corpo. La didattica francese che prevedeva lo studio della lettura della musica prima di poter approcciare uno strumento, negli anni successivi perfezionata con l’invenzione del solfeggio parlato, fu imposta nel Conservatorio di Napoli durante l’amministrazione francese e poi, anche in seguito alla presenza francese nell’Italia settentrionale, si diffuse in tutt’Italia. I programmi ministeriali del 1930 purtroppo presero come modello di riferimento la didattica musicale francese, scarsamente considerata nel resto d’Europa, bloccando il rinnovamento che molti musicisti e intellettuali dell’epoca auspicavano. Solo nel 1999, in seguito al processo di Bologna, che aveva il compito di riformare i sistemi di istruzione superiore dell’Unione europea, vi fu una seconda riforma, con l’emanazione della legge 508/99.

Lo studio superiore delle arti, della musica e delle arti performative, fu inquadrato nell’Afam e ai diplomi fu riconosciuto finalmente valore di laurea. Purtroppo fino a oggi, dei 9 regolamenti di attuazione che la legge prevedeva ne sono stati emanati solamente due. Nel disinteresse della politica in questi anni hanno prevalso interessi particolari tesi a bloccare il processo di riforma o a indirizzarlo verso direzioni inconfessabili. Ai docenti e agli studenti è stato impedito di partecipare al processo di applicazione della riforma, e la gestione dell’ordinario è stata lasciata in mano alla burocrazia ministeriale che, senza una direzione e regole certe, ha gestito il sistema spesso improvvisando o dando ascolto a questa o quella suggestione o corrente di pensiero. Oggi la fine del precariato storico, rendendo più stabile il sistema, allontana eventuali propositi di ridimensionamento di delegittimazione dell’Afam a favore di istituzioni private, ed è un’occasione perché si apra una nuova stagione di lotte affinché non solo la riforma sia portata velocemente a termine, ma anche perché i conservatori di musica siano visti non come cattedrali nel deserto, ma come elemento fondamentale di una vita musicale e civile degna di una nazione moderna.

Mi auguro di non sentire più dire “in Italia ci sono troppi conservatori”, bensì “ci sono poche orchestre, poche bande musicali, pochi laboratori musicali nelle scuole, troppo pochi sono gli italiani che per diletto suonano uno strumento musicale e sanno leggere la musica, troppo poche sono le risorse investite nella musica e nello spettacolo”.