Compie dieci anni la mostra permanente a Londra che fa riflettere su uno scomodo passato: il traffico di esseri umani. In nome degli interessi dell’Homo oeconomicus e della Chiesa vennero distrutte millenarie civiltà indigene

Nel 1802 i moli del West India Quay sul fiume Tamigi furono completati grazie agli investimenti dei mercanti. Del vecchio porto oggi resta solo l’edificio del museum of London Docklands che nel 2007, non senza polemiche, inaugurò la mostra permanente London, sugar and slavery. L’allestimento nel cuore dell’ex terminale dell’impero britannico di un’esposizione sulla plurisecolare barbarie che si consumò all’interno del “Triangolo degli schiavi” delimitato fra Inghilterra, Africa e America dalle rotte dei vascelli negrieri (3mila quelli salpati dalla sola Londra) fu interpretato da alcuni come un atto politico.

Colin Prescod dell’Institute for race relations, uno degli esperti interpellati per l’allestimento, replicò che qualsiasi fattore mettesse in discussione i rapporti fra Londra e lo schiavismo non poteva non avere un impatto politico. Fra coloro che dettero un contributo alla mostra anche Cy Grant, pronipote di schiavi della Guyana, attore, poeta e musicista, che affermò che su questo tema il popolo britannico era affetto da «amnesia collettiva». Oggi la mostra è ospitata al terzo piano di un edificio basso, sovrastato da grattacieli costruiti secondo la stessa logica del profitto in purezza di cui lo schiavismo fu frutto, nel cuore di quella gigantesca riconversione dei Docklands a città finanziaria che si svolse negli anni Ottanta sotto la spinta di un’entusiasta Margaret Thatcher. E, fra gli altri, è meta di scolaresche composte anche dai discendenti di coloro che fra queste mura furono…

L’articolo di Francesco Troccoli prosegue su Left in edicola


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