C’è chi deve pagare per fornire la propria manodopera gratuita durante le ore obbligatorie di alternanza scuola lavoro e chi deve versare contributi “volontari”. Un tour nel mondo dell’istruzione sempre meno pubblica e gratuita, dove sorridono solo fondazioni e aziende private

Pagare subito lauti contributi “volontari” per iscriversi alla scuola pubblica. Pagare di nuovo, spesso, per poter sostenere una materia obbligatoria quale l’alternanza scuola lavoro, entrata ormai a regime nelle scuole superiori, mentre dall’anno prossimo sarà  tema d’esame alla maturità. Pagare ancora di più, infine, se si desidera godere di un percorso di alternanza di eccellenza, evitando di finire a servire colazioni all’Autogrill o panini al McDonald’s, se sei fortunato. È un quadro davvero poco confortante quello che emerge prendendo in considerazione l’“esperienza tipo” di un giovane studente italiano. Un quadro in cui i termini “pubblica” e “gratuita”, intorno ai quali la sinistra – al di là delle varie differenze – è sempre riuscita a fare quadrato quando si parla di scuola, escono piuttosto malconci.

«Abbiamo portato avanti un’inchiesta, che ha portato alla luce casi “estremi” di alternanza scuola lavoro a pagamento, in senso negativo». A parlare è Aurora Anzalone, studentessa di liceo scientifico, e militante degli Studenti autorganizzati campani, autori dell’indagine. «Alcuni episodi sono stati denunciati da pochissimo, come quello dell’istituto nautico Duca degli Abruzzi di Napoli, dove per l’alternanza si arrivava a dover sborsare cifre fino a 400 euro e oltre». Già, perché in quell’istituto gli stage prevedono periodi di esperienza a bordo di navi cruise. Ma l’accesso non è gratis. I prezzi andavano dai 200 ai 400 euro, solo per il viaggio, come denunciato dal rappresentate d’istituto del Duca degli Abruzzi a Fanpage. Il trucco? Far figurare i periodi come viaggi di istruzione. Che, proprio come tutte le gite, si pagano. Ma trattasi di gite molto particolari, in cui si lavora. E, per farlo, è indispensabile dotarsi di una attrezzatura adeguata, scarpe, tuta, guanti, casco: tutto a carico degli studenti. Le aziende, che beneficiano di manodopera gratuita, non forniscono nemmeno il vestiario.

«Ma le cose peggiori si sono viste negli alberghieri – prosegue Anzalone – perché lì la distanza tra scuola e mondo del lavoro era già molto ridotta, e spesso gli studenti vengono di fatto mandati nei ristoranti a sostituire dipendenti». All’alberghiero Lucio Petronio di Pozzuoli, ad esempio, le classi sono state smistate e gli alunni, a gruppetti, indirizzati in giro per l’Italia in hotel e ristoranti, dall’Emilia Romagna alla Sardegna, per affrontare il periodo di alternanza. «Al ritorno, le esperienze che hanno raccontato erano terribili. Il rappresentante d’istituto del Petronio – riferisce la studentessa – ci ha parlato di condizioni pessime, al limite del paradossale, di alloggi predisposti dalle aziende in scantinati umidi, sporchi e fatiscenti, di pasti che provenivano dal cibo avanzato nei giorni precedenti, per risparmiare. Ma anche di intimidazioni da parte del proprietario di una struttura in Sardegna, che vietava ai ragazzi di uscire anche al termine dell’orario di impiego». Una esperienza ben poco formativa, insomma. Difatti «gli studenti sostengono in generale di non aver imparato assolutamente nulla». Con un ulteriore paradosso: «Negli alberghieri si sono sempre potute fare esperienze lavorative, esistevano infatti tirocini facoltativi; ora invece, con l’alternanza, non c’è più possibilità di scelta, ed alcuni studenti hanno persino dovuto abbandonare lavoretti retribuiti per ottemperare alle ore obbligatorie previste», chiosa Anzalone.

Ma la lotta, anche stavolta, paga. «Al Petronio hanno combattuto tanto che il preside, quando ha preparato le convenzioni per l’alternanza in vista del nuovo anno scolastico, ha stilato un documento per le aziende nel quale si chiarisce che gli studenti stanno andando ad imparare e non a lavorare, che le ore giornaliere di impegno sono al massimo sei…». Un passo in avanti. Ma siamo ancora ben lungi da quello Statuto dei diritti degli studenti e delle studentesse in alternanza chiesto a gran voce dall’Unione degli studenti, insieme ad un Codice etico per le aziende ospitanti che fissi parametri minimi di qualità sotto ai quali non si possa scendere. E ancora più lontani dalle rivendicazioni degli Studenti autorganizzati campani che, su questo fronte, hanno una posizione più radicale. «Noi siamo per l’abolizione totale dell’alternanza – spiega la militante -. Nel movimento studentesco abbiamo spesso discusso con chi ha punti di vista differenti, e ci rendiamo conto di quanto sia difficile estirpare del tutto l’alternanza in questa fase politica, per questo proviamo in ogni scuola a trovare mediazioni al rialzo, chiedendo ad esempio di poter sostenere gli stage in associazioni benefiche o di promozione sociale. Però restiamo dell’idea che il momento della formazione e quello del lavoro dovrebbero essere ben divisi. A breve uscirà anche un nostro opuscolo dove argomenteremo la tesi nel dettaglio».

Certo non per tutti gli studenti “alternanza” significa per forza spalare letame (si, è successo davvero, a Castelfranco veneto in provincia di Treviso, e il caso è finito pure in Parlamento grazie ad una interrogazione di Sinistra italiana alla ministra Valeria Fedeli, lo scorso novembre). Perchè il modo per sottrarsi a mansioni ben poco formative esiste, ed è sempre quello: pagare. Si, perché vacanze studio, corsi di lingua all’estero, ma anche un anno di superiori fatto lontano dall’Italia all’interno del progetto Intercultura: tutto ciò può essere in teoria riconosciuto come alternanza scuola lavoro, chiaramente per chi se lo può permettere (v. l’inchiesta di P. Marchetti su Left n.46/2017).

Ma, sempre più spesso, c’è un’ulteriore gabella da versare se si vuole usufruire di tutti i servizi offerti dalla scuola dell’obbligo. Si paga ad inizio anno scolastico, e si chiama contributo volontario. Si tratta di un versamento che finisce direttamente nelle casse dell’istituto, detraibile dalla dichiarazione dei redditi, formalmente utile a finanziare l’ampliamento della offerta formativa e culturale. In pratica, con quei soldi la scuola può pagare svariate cose: dagli stage all’estero, alla carta igienica, dalla Lim (la lavagna interattiva) all’intervento di potenziamento di musica o teatro nelle classi. La cifra da corrispondere? La media nazionale è di circa cento euro, ma può arrivare fino ai 180 euro richiesti dal liceo classico D’Azeglio di Torino. «Perlomeno negli ultimi anni la quota non è aumentata», commenta ironica Maria Lucia Manca, responsabile del sindacato Gilda del capoluogo piemontese. «In altre scuole superiori della città le quote oscillano tra i sessanta e i centotrenta euro, dipende da ciò che offrono gli istituti. Mentre alle scuole medie la cifra scende tra i trenta e i quaranta euro, e all’interno della quota è solitamente compreso il diario; può infine essere richiesta una quota anche alle elementari, e va dai dieci ai quindici euro».

Pur essendo un contributo di carattere facoltativo, come il ministero dell’Istruzione ha ribadito in circolari emesse dal 2012, diverse scuole continuano a lasciare intendere che il versamento sia in qualche modo collegato alla frequentazione dell’istituto, se non a “imporlo” esplicitamente. Ma c’è di più. «Il pagamento diventa una questione etica, un “ricatto morale” nel quale i genitori rimangono intrappolati – ci dice Fabrizio Reberschegg, della direzione nazionale della Gilda degli insegnanti -. Perché una persona può anche decidere di non sborsare, ma a quel punto che succede? Il figlio di un genitore che non paga ha diritto a godere degli stessi servizi di chi ha corrisposto la quota? È un tema che accende gli animi in molti consigli d’istituto». A Pisa, alcuni docenti iscritti alla Gilda hanno provato ad opporsi al pagamento della quota. Ma l’istituto gli ha prontamente risposto che “se nessuno paga la scuola si ferma”, e la resistenza è stata presto piegata.

Ma qual è la genealogia di questo tributo (non troppo) volontario? «Risale ad una prassi consolidata nel mondo della scuola, in particolare di quella primaria, come quella di donare periodicamente agli istituti materiali di consumo, portare cioè da casa i pennarelli o i fazzoletti, per intenderci. Il punto è che la cosiddetta “autonomia scolastica” voluta da Berlinguer ha permesso anche contributi in denaro, finendo col far nascere scuole di serie A, serie B e serie C, con differenze da territorio a territorio, quando gli studenti, dalle Alpi a Pantelleria, dovrebbero avere tutti le stesse occasioni, le stesse opportunità».

E, per l’ennesima volta, a passare all’incasso sono i privati, che in una scuola alla costante ricerca di fondi si presentano offrendo laboratori, corsi di formazione per i docenti e gite, tutto rigorosamente gratis ma griffato col loro brand, grazie al quale portano a casa un bel ritorno di immagine, e anche una fidelizzazione della azienda rispetto alla scuola (spesso decisiva, quando di parla di tecnici e professionali). Il problema, insomma, viene da lontano. E la Buona scuola non è altro che l’ultima pennellata di un disegno iniziato venti anni fa.

 

L’inchiesta di Leonardo Filippi è tratta da Left n.2 del 12 gennaio 2018


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