Una storia che parte da un fatto reale: la fabbrica di gelati esiste davvero anche se gli affari peggiorano. Ma il proprietario non demorde: «Finché le persone avranno bisogno di gelato, saremo qui a farglielo, per rendere dolce la loro vita»

Dove hanno fallito uomini, armi e poi accordi di pace, forse può riuscire un disegno. Dove ha fallito la politica, forse può avere successo la matita. E un cartone animato che parla agli israeliani delle sofferenze dei bambini nell’assedio di Gaza. In particolare può riuscirci una bambina di nome Noor, che in arabo vuol dire “luce”. Noor lungo la strada verso casa da scuola trova 10 shekel israeliani e decide di comprare un gelato. Insieme al cono, vince un biglietto per visitare una fabbrica di dolci, quella di Muhammad Tilbani, che la accoglie a braccia aperte.

Quando sono in ascensore e la luce va via, il proprietario le dice: «Lo sai, la luce tornerà tra otto ore». Quando vede dei macchinari impolverati, il proprietario le parla dell’embargo tecnologico che non permette di trovare pezzi di ricambio. Insieme alla visita poi la ragazza riceve in regalo l’intera fabbrica di gelato. Invece che un regalo, quel dono si rivelerà per Noor un incubo: è impossibile gestire una società a Gaza, per le condizioni di embargo e chiusura, per la guerra, perché manca l’elettricità, manca l’acqua, mancano i pezzi ricambio, perché manca tutto. Perché per le condizioni a cui sono costretti i palestinesi, sembra di vivere nel secolo scorso.

Noor non esiste, ma Tilbani invece si. Ha lavorato in Israele tutta la sua gioventù e nel 1977 ha deciso di tornare indietro, a Gaza, per aprire una fabbrica dove lavorano oggi 400 persone. Per produrre dolcezza e dolci, dove tutto manca: i gelati di Tilbani costano pochi centesimi, quanto la popolazione di Gaza può permettersi. La fabbrica l’ha aperta 40 anni fa, si chiama al Awda, che vuol dire “il ritorno”. Il cartone, che si chiama invece Gaza’s Candy Kingdom, voleva aprire una breccia nell’indifferenza degli abitanti che vivono tranquilli oltre i check point. Voleva far capire con innocui disegni cosa accade a solo un’ora di macchina da Tel Aviv: si entra in un altro mondo, in un’altra geografia, altre condizioni, come fosse un altro secolo, quello passato, in cui ogni secondo e per ogni cosa, si lotta per la sopravvivenza.

«Di cosa ho paura? Di cosa dovrei averne? Se c’è una sola bugia in questo cartone, portatemi in tribunale. Tutto di questo cartone è vero, è la realtà di Gaza, di una fabbrica che cerca di far sopravvivere i suoi operai» ha detto Tilbani, che è stato accusato dagli israeliani di dare una cattiva immagine di Israele. Eppure quelle sono solo una minima parte delle sofferenze palestinesi, ha replicato lui ai business man suoi colleghi che vivono a Tel Aviv. «Sono decenni che lotto per far sopravvivere me e i lavoratori che sono con me», ha detto ricordando il passato.

Nel 2007 Tilbani poteva esportare i suoi gelati anche in West Bank, da dieci anni invece è impossibile per l’embargo introdotto nel 2007 e gli affari peggiorano. «Come faccio a licenziare un lavoratore che ho impiegato? Morirebbe di fame, lui e la sua famiglia. Che succederebbe ai suoi figli? Sarebbe una sentenza di morte» dice l’imprenditore, ma le difficoltà economiche si fanno sempre più pressanti. «A Gaza ci sono centinaia di migliaia di persone che non hanno niente da mangiare, che non vedono la carne da molti, molti anni» dice Tilbani.

Il cartone è stato prodotto da Gisha, un’organizzazione no profit israeliana, fondata nel 2005 per proteggere la libertà di movimento dei palestinesi, specialmente quelli di Gaza, e si batte contro le sanzioni imposte agli abitanti dei territori. La fabbrica è stata bombardata nel 2014 e questo si vede anche nel cartone. Noor guarda le macerie e diventa triste, ma Tilbani le ricorda che «finché le persone avranno bisogno di gelato, saremo qui a farglielo, per rendere dolce la loro vita».