Dalla vita quotidiana degli abitanti di Addis Abeba emerge come vorrebbero vivere. Il mercato, gli orti, la scuola, il lavoro, lo spazio per stendere le spezie e lasciarle seccare, il giardino dove fare festa. Nel suo nuovo libro Tiziana Panizza Kassahun parte da qui per ragionare sul ruolo chiave che dovrebbe avere l’architettura nel preservare la democrazia

C’è un interessante nuovo libro pubblicato da Niggli, s’intitola Architecture & Human Rights. Titolo insolito e radicale. Ma esiste davvero un legame tra architettura e diritti umani? E se sì, in che modo si declina? Diciamo subito che è un libro per architetti non scritto da architetti.

Tiziana Panizza Kassahun è una strategic designer che per motivi familiari finisce a vivere in Africa, dove lavora per la Commissione per i diritti umani di Addis Abeba. È anche la città nella quale parte il più mastodontico ed ambizioso progetto di edilizia sociale e di trasformazione urbana africano. Hanno cambiato tutto. Il paesaggio, la planimetria della città, il tessuto urbano, la relazione tra le persone. Il libro è una raccolta di conversazioni critiche con gli abitanti di Addis Abeba. A queste conversazioni si aggiungono e innestano quelle di molti architetti noti incontrati a Durban nel 2014 in occasione della partecipazione all’International union of architects conference. Il risultato un fiume di riflessioni e idee su come potrebbero essere le città. La prefazione è di Saskia Sassen. Completano l’opera il bel saggio fotografico di Stefano De Luigi e la grafica di Ralf Herms. Una collaborazione appassionata confluita in un volume che ha l’obiettivo di incalzare, provocare i progettisti e stimolare il dibattito contemporaneo.

«Siamo tutti di Addis» si legge, perché è il punto di partenza che ci porta in ogni città del mondo. «Un luogo come tanti che potrebbe essere ovunque, che ci riguarda». L’obiettivo annunciato dal governo (e da tutti i governi nel mondo) è quello di dare una casa dignitosa a tutti, ma a quale costo? Come agire da progettisti contro le conseguenze di questa pianificazione che porta alla creazione di nuovi ghetti e che configura una sorta di «pulizia etnica»?

La prima cosa che il lettore si trova di fronte prendendo in mano questo libro è il colore rosso. Una scelta di campo che parte dall’immagine per parlare di diritti umani? Come nasce l’idea di questo saggio?

Era la mia prima volta ad Addis. Tutti parlavano sottovoce. Molti sorrisi. Molto bianco, nei veli delle donne, nei mantelli degli uomini. Poi mi hanno colpito delle scritte rosse vermiglio sui muri. Vernice fresca, una sorta di sfregio. Quelle scritte evocavano qualcosa di oscuro, un messaggio in codice. Una sorta di avvertimento sul maleficio che si sarebbe abbattuto su quegli edifici. Nessuno voleva dirmi il loro significato. L’ho capito da sola, quando mi sono accorta che, ad uno ad uno, quei muri con la scritta, quelle scuole, quelle case, quelle baracche, quei negozi, quei giardini venivano demoliti. E mi sono chiesta: ma dove andranno tutte quelle persone che ci abitano? E così ho cominciato a raccogliere le loro storie.
È anche un racconto fotografico.
Siamo stati fermati innumerevoli volte dalla polizia, poi finalmente Stefano è riuscito ad ottenere un lasciapassare dall’ambasciata italiana e ha iniziato la sua folle corsa. Nelle sue foto sono finite le mucche che attraversano l’autostrada, le carcasse di cemento che hanno invaso l’altopiano, gli adolescenti che sfidano i militari e tornano sul luogo dove prima c’era la loro casa, lo spettro di ferro di un ponte che si erge su di una “ex casa”. Soprattutto, è riuscito a farci vedere la realtà non solo come è, ma anche come potrebbe essere. La vita che gli abitanti di Addis vorrebbero vivere. Il mercato, gli orti, la scuola, il lavoro, lo spazio per stendere le spezie e lasciarle seccare, il giardino dove fare le foto del matrimonio e festeggiare, il parco dove andare coi bimbi, la chiesa, la moschea, la piazza dove radunarsi.
Prima di questi interventi non esisteva una vera differenza tra quartieri ricchi e quartieri poveri, edifici moderni si alternavano ad agglomerati autocostruiti, un’urbanizzazione disorganizzata che non aveva generato ghetti.
Nel contesto di Addis non erano mai esistiti quartieri ricchi e quartieri poveri. Ricchi e poveri vivevano insieme beneficiando reciprocamente di questa vicinanza.
Le testimonianze degli abitanti raccontano di orribili violenze. Penso alla storia di Agosh, e al suo senso di smarrimento nel tornare dal lavoro e vedere in lontananza quella sottile linea di fumo, la sua casa incendiata per far posto ai nuovi progetti. Ogni progettista dovrebbe leggerle. Come hai raccolto le loro voci?
Ogni progettista dovrebbe fare una chiacchierata con Agosh perché è una miniera di idee. Gli slums possono ispirare molti aspetti di un progetto. Utilizzo di materiali estranei all’edilizia tradizionale, tecniche di costruzione partecipativa che coinvolgono la partecipazione dei futuri abitanti e dei loro vicini, flessibilità degli ambienti – da camera da letto durante la notte a piccolo dispaccio tessile durante il giorno -, nuclei abitativi autonomi con condivisione di cucina. E così via. Succedono tante cose dentro uno slum. Alcune notevoli. E riguardano l’abitare insieme. La solidarietà, l’organizzazione degli spazi, la gestione di quelli comuni. Non ero mai entrata in uno slum prima. Essendo quello di Addis praticamente raso al suolo, mi sono unita al capannello di persone che tra i detriti ricostruivano mentalmente dove era la loro casa. Dove dormivano i bambini. Il sentiero che portava a tale persona. L’albero con appese le bottiglie di tajalla… Una topografia minuziosa composta da ricordi e storie vissute.
Che rapporto c’è tra architettura e diritti umani?
Gli umani sono una forza inarrestabile che trasforma il mondo. Ciò che mi desta meraviglia e speranza nell’architettura contemporanea sono due cose: la capacità di influenzare positivamente il nostro rapporto con il pianeta e come può migliorare il rapporto tra di noi. Spingere questa nostra trasformazione del mondo nella giusta direzione significa allontanarsi a gambe levate dai cambiamenti climatici, dalle ingiustizie sociali, dalla distruzione.
Sei molto ottimista, ritieni davvero che l’architettura possa salvare il mondo?
Quando le tematiche dell’ambiente sono entrate nella progettazione e nel modo di fare architettura è iniziata l’era dell’innovazione, dello sguardo lontano, della collaborazione. Anziché spingere al limite lo sfruttamento delle risorse del pianeta abbiamo spinto al massimo la nostra capacità di innovare. E considerato che trascorriamo il 99 per cento della nostra vita umana dentro un ambiente architettonico è l’architettura la risorsa migliore per assicurare la continuazione della nostra specie.
L’architettura come strategia. Michela Murgia in Futuro interiore scrive: «Chi progetta spazi non può affrontare la questione della bellezza senza essere consapevole del suo rapporto diretto con la giustizia. Tra queste due esigenze c’è un legame che non può essere disgiunto». Spesso invece questi due aspetti sono contrapposti.
Progettare un palazzo, un condominio, un grattacielo significa prendere una serie di decisioni pratiche che impattano nella vita delle persone. L’atto di costruire può smembrare comunità, famiglie, relazioni, inquinare i fiumi e l’aria che respiriamo. L’architettura può rendere possibile una catena di trasformazioni e trasferire opportunità a tutti. Scelte progettuali che non rispettano la dignità di tutti sono le peggiori nemiche dei diritti umani. Cosa sono i diritti umani? Sono un’entità morale o giuridica, politica? O altro? Non sarebbe fantastico concentrarsi su altri aspetti? Per esempio: che forma ha un posto in cui le genti più diverse si ritrovano a vivere insieme in un luogo dove chi abita non teme di essere discriminato, escluso, marginalizzato, depravato delle proprie tradizioni e cultura? L’architettura può utilizzare qualsiasi tipo di sapere a sua disposizione per contribuire alla soluzione di problemi sistemici e complessi. Non ci sono mai state società veramente eque, ma ciò non significa che non ci saranno mai.
Il coinvolgimento degli abitanti come punto di partenza non rischia di riecheggiare la “progettazione partecipata” come si è sviluppata in Italia? Un ibrido che finisce per non avere progettisti. Il confine è importante.
I destinatari di un progetto architettonico sono immaginari. Persino quando esistono in carne ed ossa e li chiamiamo clienti. Figuriamoci quelli ancora più astratti dell’edilizia popolare. Chi sono? Come vivono? Cosa sognano? Quali risorse fantastiche hanno? Quali problemi li affliggono? Utilizziamo categorie, stereotipi e definizioni che poco aderiscono alla realtà odierna. Che cos’è una famiglia? Che rapporto c’è tra una casa e non avere da mangiare? Tra l’economia sommersa e la dimensione di una finestra? Tra l’architettura e la prevenzione al genocidio in una società tribale? Tra un quartiere e l’apartheid? Tra un lampione e la nostra sicurezza?
Come può un architetto, con il proprio lavoro, influenzare e migliorare la vita delle persone e avviare un reale sviluppo sostenibile?
Viviamo in un mondo in cui collaborazione e interazione sono più importanti che il mantenimento di mondi separati. Quanto sono importanti queste interazioni nella progettazione? Mi viene da dire poco. Troppo poco.

L’intervista di Adele Savino è stata pubblicata su Left n.3 del 19 gennaio


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