La prima volta che ho visitato Sarajevo, di balcanico avevo impresse nella memoria soltanto le immagini, che a nove anni avevo visto in tv, di una guerra che pareva lontanissima, che arrivava, a singhiozzi ma implacabile, al di qua del “muro Adriatico” attraverso i tg. Ho affrontato le strade di Sarajevo pervaso dal rispetto di chi era rimasto traumatizzato da quei fotogrammi di guerra. Un rispetto che si tramutò presto in meraviglia, quando scoprii che il piccolo centro città faceva tesoro di un microcosmo metà ottomano e metà austro-ungarico, un connubio piuttosto insolito che s’avverte tangibile specie se dalla Barscarsija passeggi verso via Ferhadija.
In un clima di cicatrici ancora drammaticamente fresche, raccontate nella interminabile sequenza di edifici crivellati o nei volti ancora annichiliti degli abitanti della città, avevo scoperto un angolo d’Europa che s’era erto all’istante come modello di integrazione, il tutto a 500 km in linea d’aria da Roma. In effetti la Bosnia ha un “enorme cuore turco”, dovuto alla dominazione ottomana durata circa 500 anni e terminata più o meno un secolo fa. Cinque secoli in cui Islam e identità turca hanno avuto modo di radicarsi a fondo, tanto da creare una piccola enclave in pieno territorio europeo. Abbandonata più o meno a se stessa dopo il primo conflitto mondiale, pare che di recente Ankara si sia ricordata della sua fragile sorellina lontana. E in un periodo di benessere quantomeno economico, la Turchia dà l’impressione di voler distendere i propri tentacoli di nuovo verso quello che un tempo era definito “il giardino di Istanbul”.
Sono ritornato a Sarajevo. Adiacente alla Cattedrale del Sacro Cuore, non passa oggi inosservato un palazzo completamente rimesso a nuovo, un edificio che nella precedente visita mi aveva colpito proprio per quanto era sventrato, in pieno centro, con le finestre vuote tinte del grigio cielo della Bosnia. Oggi ospita la Galerija 11/07/95, una mostra permanente dedicata al massacro di Srebrenica. La città tutta è…