Ha lasciato perplessi la recente notizia di un giovane italiano di origine camerunense che a Milano ha colpito alla testa uno sfortunato passante con una spranga di ferro: subito arrestato, non ha fornito alle forze dell'ordine alcuna spiegazione del suo agito. Immediata è tornata alla mente l'incredibile e meno recente storia di Adam Kabobo che nel maggio del 2003, sempre nel capoluogo lombardo, di primo mattino ferì a legnate tre persone e ne uccise altrettante con un piccone. Ma chi siano questi individui che insensatamente e in brevi lassi di tempo sono capaci di uccidere più esseri umani e per quale ragione lo facciano, non è poi così chiaro. I mass murder, come li chiamano i criminologi, sono solo recentemente divenuti oggetto di interesse degli studiosi che a lungo si sono concentrati su autori d'omicidio ben differenti da loro. Un po' tutti sappiamo di quegli individui che ammazzano più persone, prima conosciute, ma una alla volta, con metodi violenti e moventi perversi, provando piacere nel dare la morte in vari e ahimè "ameni" modi; costoro agiscono in ampi archi temporali "di raffreddamento", sfidando o tenendo in scacco a lungo gli investigatori impegnati a fermarli. Tali soggetti in stile Hannibal Lecter, capaci anche di stuzzicare l'attenzione della gente comune - chissà perché poi - sono definiti tecnicamente serial killer e nulla hanno a comune con gli anonimi autori di reato di cui stiamo trattando. Questi ultimi, balzati tragicamente alle cronache piuttosto di recente, come nel caso delle note stragi d'oltreoceano avvenute nella University of Texas prima e alla Columbine High School poi (come documenta Michael Moore) di solito uomini, agiscono in scenari pubblici quali strade, scuole o luoghi di lavoro o ristorazione e massacrano con armi improvvisate o da fuoco finendo per distruggere "tutto, tutti, compresi se stessi".

Eppure non si curano né delle loro vittime né di loro stessi, né della loro cattura o sopravvivenza. Dalla letteratura si apprende che questi individui sarebbero gravi malati di mente solo in minima percentuale, secondo l'adagio noto che chi si diletta nelle stragi non può essere che disturbato ma affetto da patologia psichiatrica non sempre. Difatti i mass murder quando interrogati riportano vissuti di rabbia e ostilità, rivendicazioni a tinte paranoidi verso la società che li ha vessati mettendoli ai margini. La solitudine e l'isolamento che ne derivano assieme alla consapevolezza del fallimento della vita li obbliga alla vendetta. Disturbati non malati, o non del tutto, poiché capaci di una spiegazione del loro agire, una motivazione ad esso coerente, compatibile con una stato di lucidità della coscienza e di integrità della memoria al momento dei fatti cosa che agli occhi dei periti si traduce in motivazione causale a non ascriverli nel novero degli infermi che attuano la violenza in modalità automatica.

Senza entrare nella spigolosa questione dell'imputabilità, poiché secondo le normative vigenti, avere una patologia psichica non significa automaticamente perdere la personale responsabilità penale, può capitare che essi possano scontare sia una pena detentiva intramuraria che un periodo all'interno delle Rems (residenze per l'esecuzione della misura di sicurezza) che poi si traduce per effetto dell'articolo 221 cp in una lunga carcerazione cui solo poi seguono cure adeguate.

La storia di Kabobo riassume le contraddizioni espresse dall'instabile legame che unisce il mondo giuridico con quello psichiatrico. Il giovane ganese già all'interno del centro di accoglienza dove era arrivato aveva esibito un comportamento violento, già nella carcerazione avuta in Italia aveva dato segni evidenti di malattia mentale grave: era poi espatriato e rientrato a Milano. Dopo le lesioni e gli omicidi commessi era stato condotto in carcere dove, a seguito di trattamento con farmaci antipsicotici, aveva risposto lucidamente ai periti nominati dal gip dicendo che in passato il fratello impazzito aveva provato a uccidere la madre con un coltellaccio per essere poi colpito letalmente da conoscenti accorsi. Venivano riportate allucinazioni uditive secondo le quali lui stesso avrebbe creato il mondo e che aggravavano il suo stato di "senza fissa dimora" disperato tanto da uccidere pensando egli stesso di perire, vittima dei colpi delle forze dell'ordine. In sede valutativa, veniva diagnosticata una forma di schizofrenia paranoide esasperata dalla lotta per la sopravvivenza ma veniva evidenziata una capacità di ricordare passo dopo passo la sequenza delle vittime colpite, le sedi del corpo lesionate, le armi usate. Le voci non avevano comandato di uccidere, erano piuttosto l'odio profondo e non manifesto per non essere stato accolto, assieme all'ideazione suicidaria indiretta, gli elementi psicopatologici rilevanti al momento dei fatti: si optava per un vizio di mente parziale ed una condanna definitiva a venti anni di reclusione cui se ne sono sommati altri (oltre tre di Rems) per tentato omicidio.

È passato molto tempo da quel maggio del 2013 e tra quanto scritto o detto su Kabobo rimangono indelebili le parole del professor Massimo Fagioli che oltre ad essere un finissimo psicopatologo ha trattato a lungo nelle sue lezioni e nei suoi scritti il tema della ricerca e della terapia delle malattie mentali gravi che sempre meno infrequentemente si complicano con agiti violenti talvolta letali. Proprio su Left Fagioli individua quei determinanti culturali che portano a considerare un grave malato psichiatrico autore di una strage inspiegabile come un semplice soggetto affetto da disturbo (cfr. int. di Donatella Coccoli allo psichiatra, "Il problema è la cura. Non le mura", ndr) specie in psichiatrico-forense: l'antipsichiatria che è l'ideologia della negazione della malattia mentale e le sue radici aggettanti nel pensiero di Heidegger secondo cui esiste solo un destino umano di sanità espresso da una buona e ideale struttura costituzionale cui naturalmente i malati discostano. Se non c'è malattia, non solo non ci sono cura e prevenzione ma rimane soltanto condanna: in tema di mass murder come Kabobo ne deriva che il problema è l'immigrazione incontrollata oppure la società che non è preparata a dare vitto ed alloggio ai bisognosi, riducendo una complessa ricerca psichiatrica ad un tema dalle nuances politiche soggetto a facile propaganda. E se realmente così fosse il fenomeno sarebbe estremamente diffuso, anziché raro, secondo le stime attuali. Grazie a Fagioli sappiamo che la malattia mentale grave determina una profondissima disumanizzazione che può causare auto ed etero distruttivitá: ciò richiede da parte degli specialisti della salute mentale una formazione particolare e la messa in atto di opportune strategie terapeutiche, specie verso i casi più gravosi che molto frequentemente transitano in carcere e da lì fuoriescono ancorché affetti da grave psicopatologia comportante un rischio elevato di recidiva. Formazione che in qualche modo sarebbe richiesta anche per la possibilità di copycat ovvero di emulazione da parte di altri malati e per gli effetti patiti da eventuali sopravvissuti sempre poco tutelati nelle loro esigenze di salute psichica dopo un percorso di grave vittimizzazione.

Ha lasciato perplessi la recente notizia di un giovane italiano di origine camerunense che a Milano ha colpito alla testa uno sfortunato passante con una spranga di ferro: subito arrestato, non ha fornito alle forze dell’ordine alcuna spiegazione del suo agito. Immediata è tornata alla mente l’incredibile e meno recente storia di Adam Kabobo che nel maggio del 2003, sempre nel capoluogo lombardo, di primo mattino ferì a legnate tre persone e ne uccise altrettante con un piccone. Ma chi siano questi individui che insensatamente e in brevi lassi di tempo sono capaci di uccidere più esseri umani e per quale ragione lo facciano, non è poi così chiaro. I mass murder, come li chiamano i criminologi, sono solo recentemente divenuti oggetto di interesse degli studiosi che a lungo si sono concentrati su autori d’omicidio ben differenti da loro. Un po’ tutti sappiamo di quegli individui che ammazzano più persone, prima conosciute, ma una alla volta, con metodi violenti e moventi perversi, provando piacere nel dare la morte in vari e ahimè “ameni” modi; costoro agiscono in ampi archi temporali “di raffreddamento”, sfidando o tenendo in scacco a lungo gli investigatori impegnati a fermarli. Tali soggetti in stile Hannibal Lecter, capaci anche di stuzzicare l’attenzione della gente comune – chissà perché poi – sono definiti tecnicamente serial killer e nulla hanno a comune con gli anonimi autori di reato di cui stiamo trattando. Questi ultimi, balzati tragicamente alle cronache piuttosto di recente, come nel caso delle note stragi d’oltreoceano avvenute nella University of Texas prima e alla Columbine High School poi (come documenta Michael Moore) di solito uomini, agiscono in scenari pubblici quali strade, scuole o luoghi di lavoro o ristorazione e massacrano con armi improvvisate o da fuoco finendo per distruggere “tutto, tutti, compresi se stessi”.

Eppure non si curano né delle loro vittime né di loro stessi, né della loro cattura o sopravvivenza. Dalla letteratura si apprende che questi individui sarebbero gravi malati di mente solo in minima percentuale, secondo l’adagio noto che chi si diletta nelle stragi non può essere che disturbato ma affetto da patologia psichiatrica non sempre. Difatti i mass murder quando interrogati riportano vissuti di rabbia e ostilità, rivendicazioni a tinte paranoidi verso la società che li ha vessati mettendoli ai margini. La solitudine e l’isolamento che ne derivano assieme alla consapevolezza del fallimento della vita li obbliga alla vendetta. Disturbati non malati, o non del tutto, poiché capaci di una spiegazione del loro agire, una motivazione ad esso coerente, compatibile con una stato di lucidità della coscienza e di integrità della memoria al momento dei fatti cosa che agli occhi dei periti si traduce in motivazione causale a non ascriverli nel novero degli infermi che attuano la violenza in modalità automatica.

Senza entrare nella spigolosa questione dell’imputabilità, poiché secondo le normative vigenti, avere una patologia psichica non significa automaticamente perdere la personale responsabilità penale, può capitare che essi possano scontare sia una pena detentiva intramuraria che un periodo all’interno delle Rems (residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza) che poi si traduce per effetto dell’articolo 221 cp in una lunga carcerazione cui solo poi seguono cure adeguate.

La storia di Kabobo riassume le contraddizioni espresse dall’instabile legame che unisce il mondo giuridico con quello psichiatrico. Il giovane ganese già all’interno del centro di accoglienza dove era arrivato aveva esibito un comportamento violento, già nella carcerazione avuta in Italia aveva dato segni evidenti di malattia mentale grave: era poi espatriato e rientrato a Milano. Dopo le lesioni e gli omicidi commessi era stato condotto in carcere dove, a seguito di trattamento con farmaci antipsicotici, aveva risposto lucidamente ai periti nominati dal gip dicendo che in passato il fratello impazzito aveva provato a uccidere la madre con un coltellaccio per essere poi colpito letalmente da conoscenti accorsi. Venivano riportate allucinazioni uditive secondo le quali lui stesso avrebbe creato il mondo e che aggravavano il suo stato di “senza fissa dimora” disperato tanto da uccidere pensando egli stesso di perire, vittima dei colpi delle forze dell’ordine. In sede valutativa, veniva diagnosticata una forma di schizofrenia paranoide esasperata dalla lotta per la sopravvivenza ma veniva evidenziata una capacità di ricordare passo dopo passo la sequenza delle vittime colpite, le sedi del corpo lesionate, le armi usate. Le voci non avevano comandato di uccidere, erano piuttosto l’odio profondo e non manifesto per non essere stato accolto, assieme all’ideazione suicidaria indiretta, gli elementi psicopatologici rilevanti al momento dei fatti: si optava per un vizio di mente parziale ed una condanna definitiva a venti anni di reclusione cui se ne sono sommati altri (oltre tre di Rems) per tentato omicidio.

È passato molto tempo da quel maggio del 2013 e tra quanto scritto o detto su Kabobo rimangono indelebili le parole del professor Massimo Fagioli che oltre ad essere un finissimo psicopatologo ha trattato a lungo nelle sue lezioni e nei suoi scritti il tema della ricerca e della terapia delle malattie mentali gravi che sempre meno infrequentemente si complicano con agiti violenti talvolta letali. Proprio su Left Fagioli individua quei determinanti culturali che portano a considerare un grave malato psichiatrico autore di una strage inspiegabile come un semplice soggetto affetto da disturbo (cfr. int. di Donatella Coccoli allo psichiatra, “Il problema è la cura. Non le mura”, ndr) specie in psichiatrico-forense: l’antipsichiatria che è l’ideologia della negazione della malattia mentale e le sue radici aggettanti nel pensiero di Heidegger secondo cui esiste solo un destino umano di sanità espresso da una buona e ideale struttura costituzionale cui naturalmente i malati discostano. Se non c’è malattia, non solo non ci sono cura e prevenzione ma rimane soltanto condanna: in tema di mass murder come Kabobo ne deriva che il problema è l’immigrazione incontrollata oppure la società che non è preparata a dare vitto ed alloggio ai bisognosi, riducendo una complessa ricerca psichiatrica ad un tema dalle nuances politiche soggetto a facile propaganda. E se realmente così fosse il fenomeno sarebbe estremamente diffuso, anziché raro, secondo le stime attuali. Grazie a Fagioli sappiamo che la malattia mentale grave determina una profondissima disumanizzazione che può causare auto ed etero distruttivitá: ciò richiede da parte degli specialisti della salute mentale una formazione particolare e la messa in atto di opportune strategie terapeutiche, specie verso i casi più gravosi che molto frequentemente transitano in carcere e da lì fuoriescono ancorché affetti da grave psicopatologia comportante un rischio elevato di recidiva. Formazione che in qualche modo sarebbe richiesta anche per la possibilità di copycat ovvero di emulazione da parte di altri malati e per gli effetti patiti da eventuali sopravvissuti sempre poco tutelati nelle loro esigenze di salute psichica dopo un percorso di grave vittimizzazione.