Ebrea di origine polacca, partigiana, arrestata insieme al padre e deportata a Auschwitz, la scrittrice e regista è una voce della coscienza francese che si ribella alla negazione della memoria. Nel suo ultimo libro “L'amour après” racconta l'esperienza nel lager e la ricerca di una nuova vita

La generazione di uomini e donne che hanno sperimentato l’orrore dei campi di concentramento nazisti presto, per motivi anagrafici, scomparirà. E una delle più grandi tragedie della storia rimarrà senza la voce viva di chi è sopravvissuto e ha scelto di raccontare, ricordare ai posteri. Che cosa accadrà nell’Europa dei fascismi che avanzano nello scontento e nell’oblio, se non rimarrà più nessuno a ricordare in modo diretto l’Olocausto?

Nonostante i monumenti, i luoghi della memoria, i romanzi, le testimonianze, i libri di storia, molti sopravvissuti dei campi, alla fine delle loro vite, hanno paura di quello che si lasceranno dietro. «Una pagina sta per essere voltata. L’assenza di coloro che sono sopravvissuti ad Auschwitz non vuol dire che la loro memoria non continuerà, lo farà, ma in diverse forme. La memoria diventerà storia, ma perderemo qualcosa di potente, la forza della persuasione nei dibattiti contemporanei» ha detto Michel Wieviorka, sociologo francese che si occupa di razzismo ed antisemitismo, riferendosi ai sopravvissuti ancora viventi che ricordano le loro esperienze all’opinione pubblica.

«Che succederà quando ce ne saremo andati tutti?». Una domanda. Poi una dichiarazione. «È mio compito rivelare, è mio compito scrivere». La scrittrice e regista Marceline Loridan Ivens dice di essere “estremamente preoccupata”. Figlia di ebrei polacchi emigrati in Francia, fu catturata dalla Gestapo insieme a suo padre, in quanto membri della resistenza. Fu trasferita il 13 aprile 1944, con lo stesso treno che trasportava Simone Veil, a Birkenau, dove rimase fino all’arrivo dell’Armata rossa il 10 maggio 1945. Di quello che sopportò, parla in un monologo che l’ha resa celebre nel film Chronique d’un été, Cronaca di un’estate, del 1961, una delle prime testimonianze filmate che analizzava l’eredità della seconda guerra mondiale. «Di quella ferita mai rimarginata, ha fatto il motore della sua vita», scrive France Inter. Di Birkenau ha scritto anche nel libro Et tu n’es pas revenu, e tu non sei tornato: è la lettera- libro che ha scritto per suo padre, arrestato dalla polizia francese nel 1943, un ebreo polacco senza cittadinanza che, come migliaia, non ha mai fatto ritorno da Auschwitz. Prima di morire fece rocambolescamente arrivare a sua figlia Marceline una lettera, una cipolla e un pomodoro. La madre della scrittrice morì poco dopo, sua sorella, come suo fratello, si tolse la vita. Se c’è qualcuno che ha descritto l’orrore della storia, con il suo carico di disumanità, quella è Marceline. Nel 1993, dopo film controversi che oggi giudica naif, ha cominciato a girare a Birkenau un film che è stato mostrato in sala dieci anni dopo.

Oggi Marceline ha 89 anni. Vive a Parigi, Francia, un Paese che alle ultime elezioni presidenziali alle urne ha registrato il 34% dei voti per un partito di destra, fondato da un uomo che rinnega la tragedia compiuta dai nazisti. Marceline è una regista e una scrittrice, che, sopravvissuta all’Olocausto, è diventata una voce fondamentale della coscienza francese. Il suo ultimo libro, L’amour après, l’amore dopo, appena uscito in libreria, narra delle sue esperienze di vita – prima dentro, poi fuori -, il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, dove fu spedita nel 1944.

Aveva 15 anni e non aveva mai visto corpi nudi, neppure quello di sua madre. Un altro corpo, però, – il suo -, comincia a cambiare, proprio nell’incubo del campo, un corpo che mutava, cresceva proprio mentre veniva condannato. E cosa fare di quel corpo «dopo la sopravvivenza? Un giorno non sarò più qui per dirlo», dice la scrittrice. «Voglio formalizzare quello che non è mai stato detto, quello che trovo totalmente inaccettabile. Nessuno ha il diritto di distruggere le vite degli altri, un altro essere umano non è mai a tua disposizione». L’amore dopo non è un diario di memorie di quel campo, ma la storia di un corpo e in particolare, un corpo di donna, che sopravvive alla catastrofe storica e vuole imparare ad amare. Il corpo di una donna che nel campo è stata costretta a spogliarsi nuda sotto gli occhi di Mengele: «associavo il denudarmi alla morte, all’odio, allo sguardo ghiacciato di Mendele», che decideva chi moriva, chi viveva.

Si chiede la scrittrice: si può amare, gioire, desiderare dopo il campo di concentramento? O rimani per sempre una figlia di Birkenau? Nelle sue pagine, dopo la Polonia, appare la Parigi del dopoguerra, corpi liberati e liberi, in cerca di una nuova vita. Non è una città che assomiglia a quella del 2018, dove in questo mese hanno dato fuoco a un supermercato kosher. L’anno scorso, nella stessa Parigi, dove la scrittrice abita, un’ebrea ortodossa è stata uccisa nel suo letto, un omicidio che le autorità hanno chiesto di riconoscere come atto antisemita. Marceline è una dei 160 sopravvissuti viventi dei 2500 ebrei francesi che fecero ritorno dopo la guerra, dei 76.500 deportati ad Auschwitz. Oggi si chiede però che ne sarà della memoria e domanda alla sua Francia: «Che succederà quando ce ne saremo andati tutti, noi sopravvissuti?».