Parla l'attore che porta a teatro “Quello che non ho», uno spettacolo, dice, che serve a comprendere il presente. «La classe dirigente, che dovrebbe fare gli interessi comuni, ottiene il consenso e poi fa quello che gli è più comodo»

Si ispira alle opere di Fabrizio De André e Pier Paolo Pasolini, lo spettacolo teatrale che Neri Marcorè porta in tournée da tre anni e che, in questi giorni, arriva al Brancaccio di Roma per poi approdare in tutta Italia fino ad aprile. Dal 31 gennaio al 4 febbraio, cinque serate per Quello che non ho, diretto da Giorgio Gallione, con l’attore, ma anche imitatore, conduttore e brillante showman affiancato dai musicisti Giua, Pietro Guarracino e Vieri Sturlini per una performance di brani recitati e cantati. Nella forma del teatro canzone, attingendo al concept album Le Nuvole del cantautore genovese, ma anche ai testi del poeta friulano i quattro artisti offrono un affresco del presente, delineandone problemi e utopie.

«Cantami di questo tempo l’astio e il malcontento di chi è sottovento e non vuol sentir l’odore di questo motore…» diceva, appunto De André: che senso ha oggi interrogarsi sulla nostra epoca, attraverso storie emblematiche?
La prima scintilla nasce dal mio desiderio di prendere in considerazione le sue canzoni, il suo pensiero, il suo sguardo sul mondo. Con Giorgio Gallione, con cui lavoro da cinque anni, abbiamo pensato di giustapporre a De André la figura di Pasolini per i vari punti di contatto che ci sono tra i due e sviluppare così una riflessione, un ragionamento partendo dalle loro opere, e provocazioni, per parlare del nostro presente, ma soprattutto del nostro futuro. Non è tanto per dire che Pasolini o De André avessero, o meno, ragione, o che avessero scorto un possibile sviluppo antropologico della nostra società, quanto per dire che loro lo avevano detto, come dire, ci avevano preso. Adesso, noi riusciamo ad avere ancora un’idea di coscienza critica di pensiero che ci consenta di guardare al nostro presente, appunto, senza pregiudizio e senza convenienze?

Un’attenzione al presente attiva, che ci renda responsabili, vigili, per realizzare un futuro migliore?
Sì, dovrebbe esserci un certo comportamento etico, declinato a vari livelli: nell’ecologia, nel sociale, per i diritti verso i rom, popolazione verso cui De André guardava con vicinanza e affetto, e che, soprattutto, considerava, spogliandosi di qualsiasi pregiudizio. Quindi, questo non è uno spettacolo dedicato a loro due, ma è un punto di partenza che viene proiettato sul nostro futuro.

Parole e suoni per parlare dello sfruttamento dell’uomo e dell’ambiente, di guerra, di emarginazione. Pare che siamo messi abbastanza male…
Ci sono spunti che dicono che la nostra epoca è tutt’altro che negativa, che anzi ci sono opportunità enormi. È cambiato molto dal punto di vista della qualità della vita, ma anche nella medicina, visto che ad esempio la mortalità infantile o materna si sono ridotte notevolmente. Ci sono pure contraddizioni enormi: abbiamo più telefoni cellulari che bagni! Il finale poi è legato all’articolo sulle lucciole che aveva scritto Pasolini, che diceva che l’umanità era uccisa dalla modernità e la prova era che non c’erano più lucciole. Qui, però, abbiamo un ribaltamento: poiché le lucciole ci sono, anche i profeti sbagliano.

Quali possibilità abbiamo, quindi, per non far diventare il nostro presente un’ “orrenda preistoria”, appunto?
Abbiamo, forse, ancora la possibilità di cambiare qualcosa, di sovvertire questo baratro che abbiamo davanti, come umanità. A supporto di questo ragionamento, cito il documentario di Salgado che nella sua azienda agricola in Brasile, credendo nella terra, e quindi nella capacità della vita di riprendersi il suo spazio, pianta tante specie diverse e ricrea quella foresta amazzonica che c’era quando lui era piccolo. C’è sempre tempo per invertire le tendenze. Sta a noi farlo, non è qualcosa che piove dall’alto, ma possiamo interrogarci cercando di capire cosa possiamo fare nei gesti quotidiani e poi sperando di delegare persone che abbiano un certo tipo di sensibilità.

A proposito di “delegare” e, quindi, di governare, De André, che dalle “nuvole” di Aristofane aveva ripreso il discorso sull’attuale e sul sociale, diceva che le “sue” di nuvole sono da intendersi come quei personaggi ingombranti e incombenti nella nostra vita sociale, politica ed economica; coloro che hanno terrore del nuovo, che potrebbe sovvertire le loro posizioni di potere. Non le sembra un affresco socio-politico che ci riguarda da vicino? Il suo spettacolo non potrebbe essere anche una guida per le prossime elezioni del 4 marzo?
Sì, perché ci sono dei passaggi che riguardano la politica italiana a cui si fa riferimento. Non mi sembra sia cambiato molto dal passato, anzi. Si riflette anche su questo, sull’assurdità che la classe dirigente, che dovrebbe fare gli interessi comuni, ottiene il consenso e poi fa quello che gli è più comodo. Abbiamo varie manifestazioni di questo atteggiamento, non ultima anche l’incapacità di trovare delle regole del gioco condivise, che permettano a chi vince le elezioni di governare e a chi perde di stare all’opposizione. Abbiamo fatto molti passi indietro rispetto al periodo in cui si stava quasi arrivando al maggioritario e poi, per veti incrociati e giochi di interesse, siamo arrivati a un proporzionale stranissimo che non dà la possibilità di decidere a chi ha piccolissime rappresentanze.

De André, comunque, prendeva molto in considerazione il popolo, che quelle “nuvole” sembra subirle, senza dare nessun segno di protesta. Il nostro popolo che sta facendo?
Mi piacerebbe essere più fiducioso, ma non so se succederà qualcosa, siamo ancora troppo obnubilati e confusi nei ragionamenti politici. In fondo, l’elettorato siamo noi, è il popolo. Quel che è certo è che c’è una certa distanza con la politica in questo momento, la si è scavata anno dopo anno. Forse bisognerà toccare un fondo, che non è ancora questo, per riemergere.