Tra i tanti limiti che impediscono ai richiedenti asilo ospitati nei centri di sentirsi al sicuro, ci sono anche quelli culturali di chi li accoglie senza un’adeguata formazione. Eppure è un passaggio chiave per un efficace inserimento nella società italiana. Se ne discute il 9 febbraio alle 17,30 all'Arci nazionale a Roma

Negli ultimi anni, uno dei lavori più offerti a giovani diplomati è stato quello di operatore nei Centri di accoglienza. La struttura dei Centri, le direttive ministeriali, le interpretazioni peggiorative di molte prefetture hanno concorso a schiacciare questi giovani nella morsa contraddittoria tra gli scopi dichiarati dell’istituzione e quello che veniva loro chiesto o imposto. Ne è derivata una dequalificazione del loro lavoro, ma anche, in non poche parti d’Italia, un movimento di critica e messa in discussione di circolari e direttive, nel tentativo di dare senso sia al proprio lavoro sia ai luoghi in cui si opera.
Il contesto non aiuta. Le vicende dell’inchiesta “Mafia capitale” e di altre inchieste giudiziarie di minore impatto, la ricerca di Lunaria sul sistema dell’Accoglienza, Il mondo di dentro, la ricerca del Naga (Stra)ordinaria accoglienza hanno svelato molte contraddizioni, insufficienze, magagne frequenti in quest’ambito; ciò nonostante, a livello istituzionale si va avanti senza tenerne conto, e anzi peggiorando di continuo direttive e pressioni; se mai, qualche eco pubblica hanno trovato le accuse strumentali di politici e giornalisti di destra, volte a rinfacciare la cattiva gestione politica del governo di centrosinistra. È mancata a sinistra una consapevolezza della problematicità della situazione. Così come afone e sottotono suonano le flebili voci di richiamo alle severe condanne Onu della politica del ministro Minniti; che si può permettere (in Parlamento!) di ribadire la necessità del suo operato, con una battuta provocatoria: e che non lo sapevamo che la Libia non aderisce alla Convenzione di Ginevra? Questo è l’uomo. E sa che si preferisce attardarsi sulla sconfitta dell’Italia nelle eliminatorie dei mondiali di calcio, invece che osservare cosa accade in mare, in Libia, nei centri di accoglienza.
Non è la stessa cosa, certo: ma dare per scontato che l’accoglienza si faccia così non aiuta a percorrere pratiche di accoglienza efficaci e non discriminatorie. Sergio Bontempelli e io abbiamo incontrato per anni molti ospiti dei centri, e ascoltato le analisi di operatori, a volte sconcertate, altre ciniche. Abbiamo promesso, ai più critici di loro, sia a quelli che hanno continuato a lavorarci che ai non pochi che ne sono venuti via, di tornarci sopra, di mettere in ordine le nostre riflessioni su come si può lavorare nei centri, con tutti i loro limiti, ma senza accettare l’orizzonte chiuso che vi si impone a chi vi è trattenuto. E quest’estate ci siamo chiusi in una stanza e abbiamo scritto un manuale per operatori (v. box pag. 26).
Siamo partiti proprio dalla chiusura dell’orizzonte per chi c’è dentro, e la disparità tra uno staff di persone che la sera tornano a casa, e magari prima passano per altri luoghi, di svago e socializzazione, e l’insieme di chi invece quell’orizzonte, soprattutto mentale, non può mettere in questione. Di fronte a questa situazione, si scarica sugli operatori la contraddizione tra gli scopi dichiarati dell’istituzione e la pratica quotidiana; il loro frequente assoggettamento passa attraverso la dequalificazione delle mansioni, e conduce alla mortificazione dei profughi accolti; quest’ultima, è un elemento decisivo per la strutturazione di un centro di accoglienza. Sulla inferiorizzazione di chi viene “accolto” si costruiscono modelli di comportamenti e narrative, regole e strumenti di interpretazione di ciò che avviene. Che poi siano in molti a consentire su tali comportamenti e tali interpretazioni è il segno di una pervadenza delle formazioni discorsive (l’immigrazione, la sicurezza, il decoro etc.) messe in moto da chi ha tutto da guadagnare dalla paccottiglia concettuale e dalla miseria civile che regolano la vita degli ospiti forzati.
I primi tre capitoli del manuale sono dedicati a un’informazione di base su chi viene accolto (1), in base a quali norme internazionali e nazionali (2), le alternative spaziali e la dimensione istituzionale dell’accoglienza (3). Emerge, man mano che la riflessione procede, la necessità di deistituzionalizzare l’accoglienza per renderla più efficace e rispondente agli scopi che, dalla Convenzione di Ginevra alle varie circolari, vengono richiamati.
Si passa perciò a un altro gruppo di capitoli, il quarto e il quinto, che insistono sulla differenza tra accoglienza e sorveglianza, e sui vincoli che conducono a una precarizzazione e infantilizzazione degli ospiti (4); e sulla possibilità di una ecologia delle relazioni, che permetta l’agency degli ospiti e ne faccia uno strumento di soluzione delle problematiche che emergono nella vita quotidiana dei Centri (5).
Infine due capitoli sono dedicati a due attività di cospicuo interesse, che vengono affidate spesso a esperti, ma una cui sommaria conoscenza da parte di tutti gli operatori è cruciale per la buona riuscita dell’accoglienza: l’acquisizione della lingua italiana (6) e il diritto di asilo e la relativa procedura (7).
Forze sociali non conniventi spingerebbero perché i Centri siano chiusi o almeno profondamente trasformati. Nell’attesa che maturi la consapevolezza di una tale necessità, il manuale propone di costruire una cornice relazionale diversa, che sottragga l’operatore e il richiedente asilo al dispositivo stregato che li contrappone in ruoli diversi e confliggenti. Nella piena reciprocità, che presuppone la veloce attivazione di codici, procedure, dispositivi di comunicazione locali (cioè relativi a quella situazione), sarà più facile superare il pregiudizio della insormontabilità delle differenze e del peso delle appartenenze, che abbiamo visto rifare capolino anche presso operatori capaci e di buona volontà. Questo limite culturale impedisce che i richiedenti asilo ospitati nei centri si sentano accolti, e, come a casa propria, gestiscano in piena autonomia la struttura in cui vivono. Un riconoscimento pieno della loro agency sarebbe il primo passo verso un efficace inserimento nella società italiana.

Il libro. L’integrazione è come i bambini tiranni o la bomba d’acqua: una trovata linguistico-pubblicitaria che funziona, perché esime dalla riflessione e anzi induce le vittime a farsene portatrici. Pochi anni fa, sui media ci fu chi s’inventò, per un acquazzone particolarmente violento, l’espressione «bomba d’acqua», che ora viene ripetuta dalla mamma in vacanza in montagna o dal cugino lontano: e non ci sarebbe nulla di male, se la locuzione non si accompagnasse a sempre più frequenti disastri ecologici, che andrebbero spiegati, per poterli ridurre o almeno potersene difendere, e non ricondurli al mito. Perché se un lontano parente muore per un acquazzone ci si interroga se sarebbe stato possibile evitarlo, ma una «bomba d’acqua», via, è altra cosa: la natura ci fa guerra, perché scomodare il ministero dell’Ambiente o quello dei Lavori pubblici?

Lo stesso dicasi per la giovane cugina che insegna in una scuola materna: se trova difficoltà nel suo lavoro non sarà perché non si interroga sulla carenza o inefficacia dei dispositivi pedagogici messi in atto, quando potrà addossarne tutta la responsabilità ai bambini di quattro-cinque anni. «Sai, ho letto su un sito specializzato che si parla di ‘bambini tiranni’. È così, ti dico, arrivano a scuola che è già impossibile proporre loro un’attività didattica…». Chiudiamo la telefonata assai scoraggiati: ma non avrà sbagliato lavoro, la cugina?

Più subdolo è l’uso di ‘integrazione’, che ai più si presenta come una parola innocente e dal significato ovvio. Ma l’ovvietà, in questo caso, assomiglia a quella per cui si capisce il termine ‘badante’ senza far caso alla stigmatizzazione ineliminabile che comporta. L’uso di questi, e altri termini balordi muove dall’accettazione di recenti ‘trovate’ linguistiche, come quelle promosse dai pubblicitari per presentare come innovative le nuove merci offerte al consumo (l’aggettivo in -oso, lo slogan ‘chi vespa mangia le mele’ etc.). E infatti il termine ‘badante’ è stato lanciato durante un’intervista televisiva nel 2001 dall’on. Umberto Bossi, con una evidente dose di disprezzo. E il termine ‘integrazione’ fino a soli tre decenni fa significava altro, e continua a significare altro per chi esercita un po’ di controllo sulla qualità del linguaggio suo e altrui.

L’appuntamento. Accogliere richiedenti asilo e rifugiati. Manuale dell’operatore critico di Sergio Bontempelli e Giuseppe Faso, edito da Cesvot,  sarà presentato il 9 febbraio, alle 17,30 Arci Nazionale, via Monti di Pietralata 16, a Roma, con la partecipazione di Grazia Naletto di Lunaria,  Filippo Miraglia dell’Arci e Federica Marciano coop Alternata silos.  Per informazioni: www.cronachediordinariorazzismo.org