Il Maam Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz è una "barriera corallina, che protegge gli abitanti con la sua bellezza e diversità”, dice il suo ideatore Giorgio de Finis, oggi direttore del Macro

Maam. Un acronimo che, per chi è avvezzo all’arte, ricorda sigle come Maxxi o Macro. D’altronde il riferimento, voluto, era proprio quello. E nel tempo, il Maam di Roma (Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz) creatura ideata da Giorgio de Finis ha acquisito grande notorietà (Left se ne è occupato più volte e con un intervento dell’artista Alessio Ancillai, ndr). L’aver inserito nei locali abbandonati dell’ex fabbrica Fiorucci, accanto all’esperienza di occupazione della città meticcia di Metropoliz, un museo di arte contemporanea è un’operazione riuscita. Per l’attenzione che ha generato, per le opere presenti e per gli importanti riscontri che ha avuto. Proprio nei locali del Maam infatti, Michelangelo Pistoletto ha inviato, perché fosse esposta per un periodo, la sua celebre Venere degli stracci, mentre il Castello di Rivoli, uno dei più importanti musei d’arte contemporanea Italiani, ha regalato un’opera al Maam. Che nell’ottobre 2016 ha visto anche la visita di Luca Bergamo, assessore alla cultura e vice sindaco di Roma.
Alla base di tutto c’è però l’esperienza della città meticcia di Metropoliz.

La scintilla che ha dato il via al movimento artistico culminato nel Maam è proprio quell’occupazione partita nel 2009 ad opera dei Blocchi Precari Metropolitani (un collettivo che si batte per il diritto alla casa), che in quel periodo aiutò circa 200 persone ad occupare lo spazio abbandonato dell’ex salumificio Fiorucci sulla via Prenestina. La particolarità però era la provenienza di quella sessantina di nuclei familiari, già inseriti nel tessuto sociale della città ma che per via della crisi avevano perso la casa o versavano in condizioni difficilissime. Tra di loro c’erano infatti marocchini, peruviani, eritrei, etiopi, sudanesi, italiani, ai quali poi si sono aggiunte anche famiglie provenienti da una vicina comunità rom, creando così una vera e propria città meticcia, appunto Metropoliz. Con il risultato di una convivenza che, con tutte le difficoltà del caso (linguistiche, economiche) ha creato una vera e propria comunità, amalgamando tante diversità etniche e culturali.
E diversità è la parola chiave, quella che, dopo una prima visita nel 2009, ha attirato a Metropoliz Giorgio de Finis e Fabrizio Boni (antropologo e filmmaker) con un’intuizione artistica, o meglio la voglia di portare l’arte (o il “gioco” dell’arte come citato spesso da de Finis) dentro la città meticcia. Come? Inizialmente con un film documentario dal titolo “Space Metropoliz”, con il quale raccontare sogni e bisogni di quella comunità partendo da un’idea ben precisa e da un’opera d’arte collettiva che la rappresentasse. L’opera era un razzo, l’idea era quella di portare virtualmente, attraverso il razzo, gli abitanti di Metropoliz sulla luna. Una denuncia simbolica di come, per de Finis, la Terra e Roma fossero luoghi inospitali per gli abitanti della città meticcia, che provavano così a cercare fortuna altrove. Il tutto però andava fatto digerire ad una comunità che non aveva chiesto un’operazione di questo tipo e magari aveva altro per la testa (vedi la soddisfazione di bisogni materiali). “L’invasione pacifica” dell’arte però, come l’ha definita de Finis, riesce. Dopo un comprensibile scetticismo iniziale, gli abitanti si lasciano coinvolgere nella realizzazione del film e soprattutto dei vari manufatti artistici che arrivano a Metropoliz firmati da un numero sempre maggiore di autori (il telescopio di Gian Maria Tosatti, l’uscita di sicurezza per la luna di Hogre ed altri ancora). “Durante il lavoro del film – racconta de Finis – avevamo messo in campo tante discipline ma l’arte era quella che aveva funzionato meglio, gli artisti avevano una marcia in più nell’instaurare rapporti con gli abitanti”. L’arte era un linguaggio o un sentire universale, comprensibile a tutti i diversi “cittadini” di Metropoliz, con l’apporto dei quali si concretizza il documentario (visibile per intero su youtube). Si concretizza un’opera lontanissima da un’idea di utile in senso pratico. Un fatto per niente scontato in un contesto difficile come quello di Metropoliz.
Il movimento artistico ormai è in atto e quel mix meticcio che l’ha ispirato e accolto, ora non vuole lasciarlo andare. “Una volta finito il film – racconta de Finis – sono stati gli abitanti di Metropoliz a chiederci di restare”. L’esperienza del documentario però era terminata, bisognava dare una nuova forma alla permanenza dell’arte in quel luogo. Nacque così, sempre su intuizione di de Finis, il museo. Che ha come base i manufatti realizzati per il film ma comincia fin da subito ad attrarre numerosi artisti che realizzano opere in tutti quegli spazi della fabbrica non abitati dai cittadini di Metropoliz. Si inizia con la stanza dei giochi, intervento di Veronica Montanino per la ludoteca dei bambini di Metropoliz, ma il “virus” dell’arte contagia ben presto tutto l’edificio. E non solo. Il dialogo tra la diversità e l’arte ormai è così fitto, la vicinanza tra artisti e cittadini così naturale che alcuni abitanti chiedono agli artisti di abbellire anche le loro case, realizzando una delle definizioni principali del Maam, quella di essere “Il primo museo abitato – come lo descrive de Finis – e che in quanto museo abitato può essere considerato come una Lascaux contemporanea. All’origine infatti l’abitare e l’arte erano fusi insieme”. Un po’ come avviene (con le dovute differenze) a Metropoliz, dove l’arte ha avuto anche il merito di far conoscere le diversità della città meticcia. Ogni sabato infatti è possibile per tutti visitare il museo e di conseguenza Metropoliz, cosicché il Maam diventa anche “un dispositivo di incontro – come afferma de Finis – un luogo dove pezzi di città che magari abitualmente non si parlano, chi normalmente non sarebbe lì, ci va perché attratto dall’arte. E una volta dentro è inevitabile incontrare le persone che ci vivono, finendo per interrogarsi sull’emergenza abitativa, sulla presenza di immigrati ma anche di italiani”.
Una delle funzioni principali del Maam, come confermato dallo stesso de Finis, è però quella rappresentata dal muro dipinto da Stefania Fabrizi, posto più o meno all’entrata, sul quale sono raffigurati un esercito di guerrieri posizionati come a formare una barricata. È la barricata dell’arte. Di quelle opere che, idealmente, vogliono difendere l’esperienza di Metropoliz e dei suoi abitanti. Quella stessa diversità che ha ispirato un movimento politico ora può trovare una difesa proprio nell’arte. Le mura dell’ex fabbrica hanno ormai acquisito un indubbio valore artistico che si tramuta in un valore economico direttamente proporzionale alla quotazione di mercato degli autori delle opere. Un elemento che, se non dovesse rendere difficile un eventuale sgombero, pone sicuramente delle questioni nel momento in cui si volesse abbattere il complesso per destinarlo ad un altro uso. Senza contare che l’esperienza della città meticcia e del Maam ha dimostrato come l’unione di diversità umane e arte può ridare nuova vita ad uno spazio totalmente abbandonato, valorizzandolo con nuove forme. Più che barricata però de Finis preferisce la definizione, sicuramente più calzante, di “barriera corallina, che protegge gli abitanti con la sua bellezza, la quale coincide ovviamente con la diversità e la sua ricchezza”.
Basterà tutto questo per tenere al sicuro la città meticcia e lo stesso Maam? Nella realtà bisogna sempre tenere conto della causa intentata dal proprietario dello stabile, Pietro Salini (titolare di Salini Impregilo, il più potente gruppo italiano in materia di costruzioni e grandi ingegnerie nel mondo) che, incurante di quanto sia nato negli anni in quell’edificio abbandonato, richiede indietro lo stabile per destinarlo ad altro uso. E anche considerare una novità che potrebbe far scuola in tema di giurisprudenza su casi simili: la sentenza dello scorso dicembre riguardo allo stabile occupato di via del Caravaggio a Roma, dove il tribunale civile ha riconosciuto il diritto del proprietario di richiedere un risarcimento economico alle istituzioni per non aver eseguito lo sgombero. Mettendo in secondo piano i diritti di eventuali abitanti (esseri umani quindi) e di qualunque riflessione sul diritto alla casa o sull’emergenza abitativa. Ma sulla considerazione che le istituzioni hanno verso alcune persone sono sempre eloquenti e d’attualità le immagini dello sgombero di Piazza Indipendenza a Roma dello scorso agosto. Tornando invece a Metropoliz e al Maam possono essere ancora d’ispirazione le parole del suo ideatore: “distruggere Metropoliz e il Maam – conclude de Finis – oltre alla perdita dell’indiscusso valore artistico ed economico delle mura, vorrebbe dire soprattutto distruggere un sogno, non aver capito l’importanza sociale di un esperimento di questo tipo. Il ministero dei Beni Culturali potrebbe valutare l’idea di mettere una tutela sull’area. Se c’è un luogo con opere di interesse cultuale è più difficile per le ruspe entrare perché c’è un valore per la collettività”. Un valore ben rappresentato da Metropoliz e dalla sua “barriera corallina”. Per la quale facciamo assolutamente il tifo.

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