Senza toni felpati. Oggi più che mai. Le cifre dell'ultimo report appena pubblicato da Save the children sono lapidarie: uno su sei. Ora come mai prima, ora più che negli ultimi venti anni, dice l'organizzazione: un bambino su sei nel 2018 vive in una zona di conflitto. Sono 357 milioni i bambini a rischio, che abitano in zone dove infuria la guerra o aree in cui i politici non tacciono, ma non lo fanno neppure le armi. Più della metà, 165 milioni, vive in zone di conflitto “ad alta intensità”. Rispetto al 1995, quando erano “solo” 200 milioni, i minori in pericolo sono aumentati del 75 per cento. La mappa del rischio, della violenza, della morte non è solo quella della Siria, ma arriva ai confini della Somalia e dell'Afghanistan. È in Medio Oriente però che due bambini ogni cinque vivono a una manciata di chilometri dal sito di un bombardamento, di una battaglia, di un conflitto armato. Più che in Africa, dove accade a un bambino su cinque. Altri 220mila bambini sono in trappola in Europa, in Ucraina dell'est. Dal 2005 ad oggi 73mila bambini sono morti o sono rimasti mutilati in 25 conflitti nel mondo, riporta l'Onu, ma dal 2010 il numero dei casi verificati è salito del 300 per cento. Il report di Save the children ha valutato i canoni delle Nazioni unite per calcolare quale fosse il nuovo numero nero dell'infanzia nel mondo, nei paesi in cui si compiono omicidi e mutilazione, si fa uso di bambini soldato, violenza sessuale, rapimento, si ricorre ad attacchi a scuole e ospedali, c'è mancato accesso all'aiuto umanitario. In Siria i bambini rimangono sotto bombardamento costante, proprio come in Yemen, dove però il mancato accesso agli aiuti umanitari peggiora la situazione. Non solo la morte, le ferite, il lutto: c'è anche la fame, il mancato accesso alle cure mediche di base, all'educazione. «Soffrono quello che nessun bambino dovrebbe mai provare, dalla violenza sessuale agli attacchi suicidi, le loro case, le loro scuole, i loro parchi giochi, sono diventati campi di battaglia» ha detto Helle Thorning Schmidt, amministratrice delegata di Save the children international. Le ragioni dell'aumento sono semplici: «Ci sono più conflitti oggi e più conflitti che durano per molto più tempo, che accadono in zone densamente popolate. I conflitti in Siria, Yemen, Iraq, accadono tutti in paesi e città dove molti bambini abitano», ha detto una delle consigliere per le aree di conflitto, l'avvocato dell'organizzazione, Caroline Anning. «Nel conflitto in Siria molte scuole sono state attaccate, c'è un uso indiscriminato delle armi, bombe a grappolo sono state usate nelle zone dove i bambini vivono». Ma dopo la Siria, c'è anche il Sudan e il Sud Sudan, lo Yemen, la Nigeria, l'Iraq, la Repubblica democratica del Congo: «C'è un'intera gamma di fattori che, messi insieme, mettono a rischio i bambini oggi, come si era più visto negli ultimi vent'anni».

Senza toni felpati. Oggi più che mai. Le cifre dell’ultimo report appena pubblicato da Save the children sono lapidarie: uno su sei. Ora come mai prima, ora più che negli ultimi venti anni, dice l’organizzazione: un bambino su sei nel 2018 vive in una zona di conflitto. Sono 357 milioni i bambini a rischio, che abitano in zone dove infuria la guerra o aree in cui i politici non tacciono, ma non lo fanno neppure le armi. Più della metà, 165 milioni, vive in zone di conflitto “ad alta intensità”.

Rispetto al 1995, quando erano “solo” 200 milioni, i minori in pericolo sono aumentati del 75 per cento. La mappa del rischio, della violenza, della morte non è solo quella della Siria, ma arriva ai confini della Somalia e dell’Afghanistan. È in Medio Oriente però che due bambini ogni cinque vivono a una manciata di chilometri dal sito di un bombardamento, di una battaglia, di un conflitto armato. Più che in Africa, dove accade a un bambino su cinque. Altri 220mila bambini sono in trappola in Europa, in Ucraina dell’est.

Dal 2005 ad oggi 73mila bambini sono morti o sono rimasti mutilati in 25 conflitti nel mondo, riporta l’Onu, ma dal 2010 il numero dei casi verificati è salito del 300 per cento. Il report di Save the children ha valutato i canoni delle Nazioni unite per calcolare quale fosse il nuovo numero nero dell’infanzia nel mondo, nei paesi in cui si compiono omicidi e mutilazione, si fa uso di bambini soldato, violenza sessuale, rapimento, si ricorre ad attacchi a scuole e ospedali, c’è mancato accesso all’aiuto umanitario. In Siria i bambini rimangono sotto bombardamento costante, proprio come in Yemen, dove però il mancato accesso agli aiuti umanitari peggiora la situazione.

Non solo la morte, le ferite, il lutto: c’è anche la fame, il mancato accesso alle cure mediche di base, all’educazione. «Soffrono quello che nessun bambino dovrebbe mai provare, dalla violenza sessuale agli attacchi suicidi, le loro case, le loro scuole, i loro parchi giochi, sono diventati campi di battaglia» ha detto Helle Thorning Schmidt, amministratrice delegata di Save the children international.

Le ragioni dell’aumento sono semplici: «Ci sono più conflitti oggi e più conflitti che durano per molto più tempo, che accadono in zone densamente popolate. I conflitti in Siria, Yemen, Iraq, accadono tutti in paesi e città dove molti bambini abitano», ha detto una delle consigliere per le aree di conflitto, l’avvocato dell’organizzazione, Caroline Anning. «Nel conflitto in Siria molte scuole sono state attaccate, c’è un uso indiscriminato delle armi, bombe a grappolo sono state usate nelle zone dove i bambini vivono». Ma dopo la Siria, c’è anche il Sudan e il Sud Sudan, lo Yemen, la Nigeria, l’Iraq, la Repubblica democratica del Congo: «C’è un’intera gamma di fattori che, messi insieme, mettono a rischio i bambini oggi, come si era più visto negli ultimi vent’anni».