Sul lago di Ginevra, 200 anni fa, Mary Shelley appena diciottenne accetta la sfida letteraria di Lord Byron e scrive il mito di Frankenstein. Il 21 e 22 febbraio 45 studiosi di tutto il mondo sono all'università Ca’ Foscari per discuterne

Nell’“anno senza estate” che Mary Shelley concepisce l’idea di Frankenstein, o il moderno Prometeo. L’eruzione del Tambora, vulcano di una remota isola dell’Oceano Indiano, avvolge di polveri l’emisfero settentrionale, riduce la radiazione solare e sconvolge le stagioni. Tutto avviene in quella fredda estate di 200 anni fa sul lago di Ginevra, dove la diciottenne Mary, assieme al futuro marito Percy Shelley, è ospite di Lord Byron, della sorellastra Claire Clairmont, amante del poeta, e del loro medico John Polidori a Villa Diodati. Costretta in casa dal maltempo, la compagnia inganna le ore leggendo storie di fantasmi e Byron, in una sorta di concorso letterario, lancia una sfida: ognuno di loro dovrà scrivere un racconto dell’orrore. Tutti si impegnano ma solo due onorano la scommessa, Mary con Frankenstein e John Polidori con il racconto Il Vampiro che suggerirà Dracula a Bram Stoker. L’ispirazione, che per la Shelley tarda a venire, si palesa con forza una notte nel dormiveglia: «Vidi lo scienziato dall’arte sacrilega, inginocchiarsi, pallido, accanto alla cosa che aveva messo assieme, l’orrida forma di un uomo disteso, vidi una macchina che entrava in azione e il cadavere che mostrava segni di vita. Aprì gli occhi e io sgranai i miei per il terrore».
Nasce così un fenomeno letterario unico che attraversa intramontabile questi due secoli: travalica i confini del gotico per affondare nelle paure del Romanticismo; sfrutta il romanzo epistolare per adottare una rarità assoluta; genera il primo romanzo di fantascienza per entrare come mito nella cultura popolare. Un’opera cioè senza tempo e senza contesto che talvolta si fa solo titolo. Chi ode la parola Frankenstein crea in sé un’immagine o un pensiero, ma dietro sono spesso scomparsi l’autrice, la trama, i personaggi. È curioso infatti che Frankenstein vada spesso erroneamente ad identificare l’essere deforme richiamato alla vita dalla materia inanimata e non il suo creatore Victor, «scienziato dall’arte sacrilega». Il mostro è, e va osservato, senza nome. Ma questo banale quanto comune equivoco può essere il pretesto per approfondire la ricerca e cogliere, dietro gli apparenti aspetti di continuità, i tratti del romanzo che creano una rottura con la tradizione letteraria e filosofica dell’epoca. Ma per comprendere oltre è forse necessario ricordare la trama dell’opera che si articola in tre narrazioni autobiografiche, quella dell’esploratore, dello scienziato e della creatura, in un intreccio, che, come un’onda, si richiude su se stesso a ritroso. Durante una spedizione al Polo Nord il capitano Walton incontra Frankenstein, giovane brillante che, dedito agli studi di chimica e filosofia naturale, è ossessionato dall’idea di poter dare vita alla materia inanimata e creare “un essere perfetto”. Una notte la creatura prende vita ma Frankenstein, scosso dall’orrore per l’insostenibile bruttezza dell’essere che ha appena creato, fugge sperando che «lasciato a se stesso, il lieve barlume di esistenza che era stato trasmesso si sarebbe dissolto e che quella cosa dalla vitalità così imperfetta si sarebbe di nuovo trasformata in materia morta».

Il mostro invece vive e la fuga di Frankenstein sarà devastata da disgrazie e delitti che, si scopre quando i due si rincontrano su un ghiacciaio delle Alpi, sono opera del mostro. Da qui, racchiusa al centro del romanzo, si snoda la terza triste storia, quella dell’orripilante creatura che, contrariamente a ciò che ha potuto fin qui pensare il lettore, è un essere mite ma distrutto dalla violenza dell’abbandono. Inoffensivo per natura, se respinto avverte «nella mente una sorta di pazzia che va al di là di ogni limite della ragione e della riflessione». Il tragico epilogo vede i tre, di nuovo, nella vastità ghiacciata dell’Artico dove il cerchio si chiude. Frankenstein, trascorso il resto della vita ad inseguire il suo persecutore, muore di stenti e privazioni; l’esploratore, compresa la vanità della presunzione, porterà in salvo la propria ciurma, e l’innominata creatura si dirige verso il polo dove sparisce per sempre.

Un’opera innovativa per forma: il classico schema settecentesco del romanzo epistolare, ideato per accrescere curiosità e tensione attraverso la sospensione della narrazione, perde vigore di fronte al sistema a scatole cinesi che Mary Shelley propone con i tre livelli narrativi. Innovativa per contenuto: chi allinea Frankenstein al gusto del gotico, che denuncia la povertà del pensiero illuministico, non osserva che il mostro della giovane esordiente nasce in uno stato d’innocenza rousseauiano e cresce secondo i principi di Locke: da tabula rasa ad erudito. Di gotico c’è ancora in Mary Shelley l’ossimoro terrificante-stupendo ma l’anfratto buio e angusto del castello, il minaccioso sotterraneo diventano la distesa gelida del Mar glaciale artico, immagine tutta romantica del tremendo fascino di fronte alla maestosità della natura. Eppure, e questo è il tratto che merita di essere approfondito, l’autrice oltrepassa il Romanticismo stesso quando lo straordinario non diventa trascendente, quando il demiurgo è scienziato. è per questo ultimo aspetto che Frankenstein è divenuto, a ragione, precursore del genere fantascientifico ed è entrato di diritto nei dibattiti culturali come emblema della bioetica.

Tuttavia, approfondendo e contraddicendo l’interpretazione comune, non pare che il senso dell’opera sia da ricercare nel ruolo dello studioso che, tracotante, ignora e travalica i limiti della scienza. Non pare cioè esserci da parte dell’autrice alcun monito alla superbia umana che intende sostituirsi al divino. La Shelley, figlia del filosofo illuminista William Godwin e della scrittrice Mary Wollstonecraft, strenua promotrice dei diritti delle donne e anticipatrice del femminismo, vive un ambiente familiare e sociale estremamente ricco di cultura ermetico-alchemica e di interesse per gli studi sul galvanismo, un ambiente che è più facile immaginare divertito che non impressionato o spaventato di fronte alle sfide della scienza. Il sottotitolo Moderno Prometeo, più che un monito, appare piuttosto il tentativo di opporsi alla religione e ad ogni forma di trascendente che trova conferma sia negli espliciti riferimenti al Paradiso perduto e al Faust sia nell’iniziale allusione a Coleridge quando l’esploratore, a differenza del vecchio marinaio della Ballata del poeta inglese, non uccide l’albatro. L’uomo non ha più paura del fuoco e fa sua la luce. Questi gli spunti che offre direttamente la lettura del romanzo e che ci mostrano una diciottenne viva e coraggiosa, poco incline ad accettare passivamente le mode del tempo. Se poi, sollecitati dalle interpretazioni più popolari e dagli accostamenti letterari proposti per il Frankenstein, un monito volessimo proprio leggerlo, questo per noi sarebbe di segno opposto: allo scienziato illuminista non viene affatto rimproverata la ricerca in sé, quanto l’ottusità di pensiero che guarda solo al meccanismo che fa vivere il corpo, la stupidità nei riguardi della ricerca sulla realtà umana che non vede gli affetti della strana creatura.

Una cecità affettiva che la Shelley fa affiorare nel contrasto di ritmo delle due narrazioni: piana, lenta e descrittiva quella di Victor, incalzante e appassionata quella del mostro. Ora, vedendo tutti i limiti dell’autrice e del pensiero dell’epoca, vorremmo comunque riconoscere a questa giovane donna il tentativo di inventare una favola sull’“uomo nuovo” tradito dalla lucidità del pensiero illuminista che lo esilia nell’oscurità: è esplicito nel romanzo il passaggio dalla luce di luoghi ameni al buio dei ghiacci eterni. In questo senso ci paiono poco calzanti i paragoni letterari solitamente suggeriti: è brutto ma non è, almeno in origine, la cattiveria di Mister Hyde del racconto di Stevenson; è brutto ma non è la violenza inestinguibile del Vampiro né la freddezza di Olimpia, l’automa concepito da Hoffmann ne Il Mago sabbiolino. Pare più la sfida, ben conosciuta al tempo, di saper “vedere”, intuire, la bellezza interiore al di là delle fattezze fisiche. Deluso dall’assenza di amore (le vaste gelate dell’Artico) e dal non riconoscimento (non ha nome), il mostro diventa violento. Diventa violento. Il resto è fantasia.

Sono trascorsi due secoli da quella fredda estate e ci siamo lasciati alle spalle storie assai più insidiose e subdole del Frankenstein di Mary Shelley. Tutte quelle che, nell’oscurità della notte quando senza coscienza e parola si esprime l’altro tempo della nostra vita, hanno voluto vedere cattiveria e bestialità, hanno voluto fare dei sogni «la manifestazione più feroce della pazzia», negando così la possibilità di conoscere il pensiero che le immagini oniriche raccontano. Capito il senso del fuoco e della luce, Psiche vede Amore e scopre che è «di tutte le fiere, la più mite e la più bella».

Il convegno. Il 21 e 22 febbraio, 45 studiosi di tutto il mondo sono all’università Ca’ Foscari per celebrare il capolavoro di Mary Shelley. L’evento si articola in sessioni parallele e si apre con la relazione plenaria di Marie Mulvey-Roberts, autrice di svariati studi su Mary Shelley cui seguirà il giorno successivo quella di David Punter, il maggiore esperto in Europa di letteratura gotica