Il settore della cultura è da anni costretto a combattere una lotta difficile e travagliata: quella contro le forme di lavoro atipico, precario o coperto dalla maschera del volontariato, sempre più spesso adoperate col fine di soppiantare il lavoro stabile e regolare. In particolare, la diffusione del ricorso al volontariato come attività in grado di rimpiazzare il lavoro pagato è ormai diventata una deriva dalla storia pluridecennale, e che dalle professioni culturali rischia d’estendersi ad altri ambiti. Per opporre un argine a questa tendenza, gli attivisti della campagna Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali hanno presentato la scorsa settimana alla sala stampa della Camera, una proposta di legge per la regolamentazione del volontariato culturale. «Questo uso anomalo del volontariato», afferma Leonardo Bison, archeologo e attivista di Mi riconosci, «sembra quasi un espediente per abituarci all’idea del lavoro gratuito. Vige, purtroppo, il luogo comune che se si ama tanto una cosa, non sia necessario essere pagati per farla: è un concetto aberrante. Così, negli ultimi anni, è stata condotta una grande operazione legislativa per sdoganare questa cattiva prassi». Un’operazione che vide i suoi albori nel 1993, quando l’allora ministro dei Beni culturali Alberto Ronchey varò una legge, tuttora in vigore, che introduceva la possibilità, per il ministero, di stipulare convenzioni con le organizzazioni di volontariato «per assicurare l’apertura quotidiana, con orari prolungati, di musei, biblioteche e archivi di Stato».
Sei anni più tardi, con Giovanna Melandri, il ministero stabilì un protocollo d’intesa per definire un modello di convenzione per disciplinare la partecipazione dei volontari ad attività come l’ampliamento della gamma dei servizi culturali, la promozione delle mostre, lo sviluppo delle attività didattiche. Il resto, invece, è storia recente: nel 2014, il ministro Dario Franceschini, in occasione del summit europeo della cultura che si tenne alla Venaria Reale, auspicò l’impiego di giovani volontari in attività di tutela del patrimonio: una proposta grave, dal momento che la tutela presuppone specifiche competenze e professionalità, maturate in anni di studio e d’esperienza, da retribuire in maniera adeguata. «E se andiamo a mettere in competizione il volontariato con il lavoro», continua Bison, «otteniamo due effetti negativi: l’abbassamento degli stipendi e il deterioramento della qualità del lavoro. Il volontariato non può fare concorrenza al lavoro: deve tornare a essere una risorsa sociale come lo è sempre stata fino a poco tempo fa». La legge quadro del 1991, norma di riferimento della materia, definisce infatti il volontariato come un’attività «prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà». Ma non sono mancati casi in cui questo spirito è stato disatteso. Uno dei più eclatanti fu quello di Expo 2015: proprio nel gennaio di tre anni fa si concludeva la massiccia campagna di selezione di volontari che avrebbero prestato servizio a Milano. Alla fine furono coinvolti settemila volontari, impiegati per un massimo di due settimane ciascuno e inviati a svolgere funzioni d’accoglienza e orientamento: di fatto, a lavorare per più di cinque ore al giorno in cambio d’un pasto quotidiano e del rimborso per le spese di trasferta.
Il modello di Expo 2015 fu destinato a far scuola. Agli inizi del 2017, il ministero dei Beni culturali pubblicò un bando di selezione per 1.050 volontari da impiegare in progetti di servizio civile nazionale presso musei, archivi e biblioteche: non ci volle granché a comprendere che i ragazzi tra i diciotto e i ventinove anni selezionati sarebbero serviti per coprire le mancanze d’un ministero che annaspa nella cronica carenza di personale specializzato. In soli sei anni, dal 2010 al 2016, l’organico del Mibact s’è ridotto di circa cinquemila unità, e il concorso del 2016 per l’assunzione di cinquecento nuovi funzionari non ha rappresentato che un misero palliativo contro l’inesorabile innalzamento dell’età media dei dipendenti e il loro progressivo pensionamento: in compenso, s’è esteso l’utilizzo del lavoro mascherato da volontariato. «La nostra proposta di legge», spiega Bison, «arriva dopo una lunga elaborazione e dopo tante campagne di sensibilizzazione. Ci siamo resi conto che proprio il ricorso scriteriato al volontariato è il principale problema che affligge il lavoro nei beni culturali: da qui l’esigenza di una proposta di legge moderata e di civiltà, da mettere davanti alle forze politiche». La proposta presentata da Mi riconosci intende agire sulla legge Ronchey, sul Codice dei beni culturali e sul regolamento delle carriere del personale nelle biblioteche, con pochi punti, ma precisi e dettagliati. Il primo prevede che i volontari non debbano più essere impiegati per assicurare l’apertura delle strutture del ministero, bensì «per coadiuvare il personale dell’amministrazione dei beni culturali e ambientali» che opera al loro interno.
Altri obiettivi sono la cancellazione della misura che consente d’integrare il personale del Mibact con quello delle organizzazioni di volontariato, e l’inserimento d’una disposizione che impedisca agli istituti di servirsi d’un numero di volontari superiore rispetto a quello dei dipendenti assunti con regolare contratto. Ancora, la proposta di legge prevede d’introdurre una regola che vieti al personale volontario d’occuparsi di conservazione, promozione, valorizzazione, catalogazione, studio e attività educative. Verrebbero poi introdotte misure per impedire l’equiparazione del volontariato al lavoro regolare. «Gli ostacoli che dovremo affrontare saranno molti – conclude Bison -. Tuttavia, siamo determinati. Ci sono parlamentari che appoggiano la nostra proposta. E non c’interessa che la proposta venga semplicemente portata in Parlamento: sappiamo già che accadrà. Vogliamo che diventi legge. E chiederemo alla politica di sostenerla».