Dopo un anno intenso per le lotte femministe, la campagna #metoo e la bomba Weinstein, le donne tornano a protestare in tutto il mondo. E il movimento Non una di meno rilancia #wetoogether, per spostare i riflettori dalle molestie alle loro cause

L’otto marzo sarà una giornata di femminismo per il 99 per cento». Con questo auspicio si chiude la lettera – pubblicata dal The Guardian – con cui è stato lanciato lo sciopero globale delle donne negli Stati uniti. Un giorno di mobilitazione con cui “Non una di meno” torna a farsi sentire, fuori dai luoghi di lavoro. Dopo il grande appuntamento del 2017, quando i collettivi femministi in più di cinquanta Paesi avevano rispolverato, innovandola, una pratica tipica degli anni Settanta. Ma soprattutto dopo un anno intenso, che ha visto esplodere il movimento #metoo, la celebre onda di denunce di abusi nel mondo dello spettacolo (e non solo) nata negli Usa all’indomani del caso Weinstein, che numerose poltrone ha fatto tremare nello star system a stelle e strisce. Tanto da convincere il magazine Time a nominare “Persona dell’anno” le donne che sono riuscite a rompere il silenzio sulle molestie.

E poi l’onda è straripata, e ha bagnato anche l’Italia. Con la denuncia di Asia Argento, l’inchiesta delle Iene sui Weinstein “de noantri”, l’arrivo (a scoppio ritardato) della politica, e la reazione scomposta di buona parte media, ancora permeati di cultura misogina e religiosa. «Il nostro sciopero riparte da lì, certo, ma vuole anche andare oltre», ci racconta Tatiana Montella, avvocata e attivista di Non una di meno. «Il movimento #metoo è stato importante e, se si è innescato, è anche grazie alla presenza dei movimenti femministi, per cui si è diffusa una maggiore propensione a denunciare questi tipi di violenza. Si tratta di gesti fondamentali. Poi però bisogna riuscire ad andare oltre: la denuncia degli effetti deve portare a mettere sotto accusa le cause strutturali degli abusi, ossia le gerarchie economiche e di potere». Questo è l’obiettivo numero uno dello sciopero – ribadito anche nel vademecum con le istruzioni per aderire che potete leggere sul blog del movimento: trasformare il #metoo (“anche io”) in #wetoogether (“noi insieme”). Il secondo hashtag, evoluzione del primo, è stato fatto decollare da Non una di meno lo scorso autunno, a stretto giro, per provare a convertire la massa delle singole accuse individuali in risposte collettive, che mirano a smascherare le radici della violenza, le relazioni di sfruttamento ed oppressione.

«L’obiettivo è trasformare un grido solidale in un grido collettivo – precisa Montella -. La voce più forte che possono avere le donne che rivestono una particolare posizione, che hanno più visibilità, come Asia Argento, può e deve essere un volano per mobilitare le donne che subiscono violenza quotidianamente nei loro luoghi di lavoro, donne per cui spesso è davvero difficile uscire allo scoperto e farsi sentire. Penso alle migranti, alle badanti…» Il punto, insomma, è superare la sola accusa del “mostro”, maschera interpretata perlopiù dal produttore televisivo ricco e famoso, per aprire uno spaccato sulla genesi sociale dei soprusi.

E che il problema sia sistemico, lo ha mostrato in modo evidente il “caso Macerata”. «All’indomani dell’omicidio della giovane Pamela – chiarisce Montella – abbiamo provato subito a ribadire che la violenza maschile non ha passaporto né colore, ma l’episodio è stato presto strumentalizzato: qualcuno si è eretto a difensore delle donne a prescindere, qualcun altro ha declinato la vicenda in chiave razzista, in pochi hanno sottolineato come la violenza maschile sia un fattore strutturale della società, che attiene ai rapporti di potere tra i sessi». Fino a conseguenze disumane. «Ho letto commenti – racconta l’attivista – che mi hanno sconvolto. Uno di questi diceva che “è più grave se ad uccidere è un migrante, perché rompe il ‘patto di solidarietà’ che stipula con chi lo ospita”. Come se un italiano, un “buon padre di famiglia”, fosse in qualche modo più legittimato ad uccidere. È incredibile». Il caso di Pamela, inoltre, scoppia nel bel mezzo della campagna elettorale. «Una delle più faticose e tristi che abbia visto – precisa – selvaggia anche nei toni. Abbiamo provato a sfidare la politica sui nostri temi, ma alla fine credo che la bagarre elettorale sia stata un “tappo” per le nostre lotte, perché i partiti non hanno detto una parola su questioni cruciali, penso al lavoro, alla salute».

Proprio su questi fronti, il movimento sta lavorando da tempo. La battaglia per la sanità pubblica è uno dei punti cardine della lotta, come si legge anche nel Piano femminista, il documento frutto di una stesura collettiva durata più di un anno, presentato poco prima del corteo del 25 novembre scorso. «I problemi in questo senso sono molti, dal dilagare dell’obiezione di coscienza, alla privatizzazione dei servizi socio-sanitari. Basti pensare che qui da noi a Roma, al Policlinico, lo storico reparto per l’Interruzione volontaria di gravidanza è a rischio per lo scarsissimo numero di non obiettori e lo scarso utilizzo della pillola Ru486. Senza considerare, più in generale, che 12 milioni di cittadini sono costretti a rinunciare alle cure perché costano troppo».

E poi c’è il lavoro. «La potenza del nostro movimento traspare dal fatto che, se confronti tutte le piattaforme dello sciopero, dagli Usa all’India, il temi del lavoro migrante, del gender gap salary e del lavoro riproduttivo sono ovunque centrali. Rivendicazioni simili in tutto il pianeta». A parlare è Natascia Cirimele, insegnante e attivista romana, che ha partecipato al tavolo “lavoro e welfare” per la stesura del Piano. Un tavolo che ha portato ad una vera e propria produzione intellettuale, che ha sfornato chiavi nuove per la critica dell’economia. «Abbiamo per esempio studiato a lungo la “femminilizzazione del lavoro”, ossia quel processo che vede la precarietà e i salari ridotti sperimentati sulle donne debordare, e colpire a cascata anche gli uomini. Anche per questo il femminismo deve essere un patrimonio di tutti».

Un movimento globale dunque, e prezioso. L’unico che riesca tuttora – come già scritto su queste pagine – a tenere insieme anticapitalismo, antisessismo e antirazzismo. Ed è un peccato che molti sindacati restino a guardare (aderiranno allo sciopero solo sigle di base, mentre i confederali risultano non pervenuti).
Ma non c’è solo la critica. Lo sciopero è anche l’occasione per rilanciare proposte concrete alla politica. «Un salario minimo europeo per combattere allo stesso tempo gender gap e dumping salariale, un welfare universale e laico, politiche a sostegno delle attività di cura, cosi da renderle un lavoro non più relegato alle donne». E poi la richiesta di un reddito di autodeterminazione incondizionato. «Già, perché abbiamo fatto una campagna sulle molestie sul lavoro, e abbiamo scoperto che le mancate denunce derivano non tanto da fattori culturali, bensì dal fatto che non ci sono norme in grado di dare garanzie a chi si espone. Quando il ricatto è il salario, e la molestia proviene da chi te lo eroga, se non c’è welfare per chi denuncia è chiaro che il meccanismo non funziona».

L’articolo di Leonardo Filippi è tratto da Left in edicola


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