È un Paese lacerato dalle disuguaglianze sociali, ai livelli del 1905, quello che il 18 marzo elegge il nuovo presidente. Eppure sembra scontata l’ennesima vittoria del principale responsabile. Putin, che otterrebbe il quarto mandato dal 1999, in cambio del voto promette di far tornare la Russia una potenza mondiale, non solo in campo militare

Allo stadio vicino all’università di Mosca la gente arriva alla spicciolata: il termometro segna -15 gradi e il sole è fiacco. Non è in programma una partita di calcio ma la prima uscita elettorale di Vladimir Putin a soli 15 giorni dalle presidenziali che si terranno il 18 marzo. All’ingresso vengono distribuiti cartelli con scritto «Un presidente forte per una Russia più forte!». Sugli spalti la gente parla di tutto, meno che di politica. Un gruppetto di ragazze bionde infreddolite, ballano al ritmo del pop russo sparato a tutto volume dagli altoparlanti. La maggioranza di chi è qui sta facendo in realtà una sorta di straordinari non pagati. Tutti i dirigenti di aziende statali o che ricevono finanziamenti pubblici, hanno ricevuto giorni fa un sms da Russia unita, il partito del presidente. Vi era scritto quante persone dell’azienda avrebbero dovuto partecipare al comizio, segnalando per tempo all’organizzazione nome e numero di telefono. Indispensabile portarsi bandiera nazionale appresso, cosa che quasi tutti hanno diligentemente fatto. Come da programma, alle 13 inizia la manifestazione. Salgono sul palco i vincitori delle medaglie alle recenti olimpiadi invernali di Corea. Applausi convinti. Dopo 20 minuti arriva Putin e sciorina qualche promessa: nei prossimi sei anni ridurremo il numero dei poveri, la sanità sarà più efficiente, ci sarà una pioggia di rubli per le donne che faranno due figli. «Qui hanno vissuto i nostri avi, qui viviamo noi e i nostri figli e vivranno i nostri nipoti. E noi faremo tutto perché essi siano felici!» conclude poi Putin.

La sera al telegiornale si parlerà di più di 10mila partecipanti ma ad occhio ce ne saranno stati giusto la metà. È una campagna elettorale soporifera, quella targata 2018. Alexey Navalny, il leader populista e anti-corruzione che qualche anno fa ottenne il 27 per cento dei voti nella corsa alla poltrona di sindaco di Mosca, è stato estromesso con motivazioni discutibili dalla competizione. Non avrebbe comunque vinto, ma nelle grandi città europee, dove esiste un’opinione pubblica “liberal”, avrebbe potuto creare qualche grattacapo a “Zar Vladimir” nella sua corsa solitaria al quarto mandato presidenziale. Gli altri candidati non destano timori al Cremlino: ci sono il solito xenofobo Vladimir Zirinovsky e l’outsider Xenya Sobcak figlia del celebre sindaco di San Pietroburgo degli anni 90 e star dell’edizione russa dell’“Isola dei famosi”. I comunisti hanno all’ultimo momento scelto come front-runner Pavel Grudinin titolare di un’azienda-modello agroalimentare della provincia della Capitale, cercando di svecchiare l’immagine di un partito in declino inarrestabile. «La “tecnologia elettorale” russa dell’era Putin è qualcosa che gli occidentali difficilmente possono comprendere», dice il politologo Boris Kondakov. «Putin – spiega Kondakov – si mostra solo nei telegiornali, sempre indaffarato a risolvere i problemi del Paese e a contrastare nel mondo l’egemonia americana, mentre agli altri candidati è concesso solo di partecipare a talk-show vocianti. Così il telespettatore interiorizza e percepisce che l’unico candidato credibile sia il presidente in carica».

Il vero timore dello staff di Putin è che la partecipazione al voto sia bassa. Per questo la macchina propagandistica si è messa in moto, e a farla girare sono gli apparati governativi a tutti livelli. Il sindaco di Mosca, Sergey Sobyanin, sta girando in questi giorni in tutte le aziende municipalizzate tenendo comizi improvvisati nelle mense durante l’orario di lavoro. «Ci saranno ancora più investimenti per le vostre imprese» rassicura. Naturalmente se i dipendenti andranno in massa a votare. Nelle elezioni per la Duma, il parlamento russo, nell’ottobre 2016, la partecipazione al voto nelle grandi città è stata desolante: a Mosca ha votato il 28% a San Pietroburgo il 25. «La campagna di Putin è tutta tesa a rassicurare un popolo impaurito da quattro anni di crisi e di svalutazione del rublo che ha portato alla riduzione reale dei salari di oltre il 30%», sostiene Ilya Budraitskis, docente di scienze politiche all’Università di Mosca e attivista del Movimento socialista russo. «Noi non siamo astensionisti di principio – afferma convinto Budraitskis – ma oggi l’unico modo per opporsi allo strapotere di Putin è non andare a votare». I motivi di paura e di insofferenza nel Paese, del resto, non mancano.

Lo scorso anno secondo uno studio della Vneshekonombank i redditi dei russi sono calati del 6,9%. La forbice tra ricchi e poveri continua ad aumentare e ha riportato la Russia al livello di diseguaglianza dell’anno 1905. Oggi il 10% più ricco della società si prende il il 45,5% delle entrate nazionali, il 50% più povero solo il 17% e il 40% del “ceto medio” il restante 37,5%; 14mila persone guadagnano all’anno più di 5mila volte del 20% più povero della società. Per provare a cambiare le cose ci volle la prima rivoluzione antizarista, ma i russi hanno smesso da tempo di credere in cambiamenti radicali dopo le tragedie vissute nel XX secolo. Così le soluzioni diventano individuali. Secondo un sondaggio della società Levata il 15% dei russi ha un doppio lavoro e la Russia è la quinta nazione in cui si lavora di più al mondo. Basta allontanarsi da Mosca per iniziare a conoscere un altro Paese. Case popolari di epoca krushioviana malconce, ponti che cadono a pezzi, autobus di epoca sovietica che rantolano su strade sconnesse. È l’altra Russia: quella dei 20 milioni di persone che sopravvivono con 170 dollari al mese.

Il 1 marzo nell’annuale “Discorso sullo stato della Federazione” Putin ha promesso per i prossimi anni un programma economico-sociale faraonico: crescita demografica, rilancio dell’economia, rinnovamento delle infrastrutture e anche la produzione dell’ormai famosa “superbomba Satan”, che non sarebbe contrastabile neppure dai più sofisticati sistemi di difesa anti-missile. Il presidente russo ha indicato gli obiettivi volti a far tornare in pochi anni la Russia una potenza mondiale, non solo in campo militare. L’inquilino del Cremlino vorrebbe, durante il prossimo mandato, ridurre della metà il numero di persone sotto il livello della povertà e portare il Pil pro capite a parità di potere d’acquisto dei russi, a 40mila dollari annui. Per affrontare il calo demografico, che rischia di far scendere la popolazione russa – secondo la Banca mondiale – a soli 131 milioni nel 2050, Putin vuole creare 270mila posti di asilo-nido entro i prossimi tre anni, sovvenzionare le madri russe che faranno più di due figli con 500 euro mensili, aumentare l’aspettativa di vita media dei russi oltre gli 80 anni investendo 3,4mila miliardi di rubli nella sanità e nella lotta alla piaga dell’alcolismo.

Un vasto programma keynesiano è previsto anche per il rinnovamento delle infrastrutture: raddoppio della rete autostradale e della linea ferrovia, l’aumento del 50% del numero di voli internazionali, collegamenti internet ad alta velocità anche nelle regioni più remote del Paese. Secondo Putin questi risultati potranno essere raggiunti anche se non ci sarà nel prossimo futuro un aumento del prezzo del petrolio, una tesi che molti economisti considerano bizzarra, visto che nei primi anni Duemila il prezzo del greggio sopra i 100 dollari il barile fu decisivo per determinare quel boom economico che si prolungò per quasi un decennio. Ma essendo comunque in campagna elettorale, Putin non ha voluto svelare l’altro lato della medaglia di programmi così ambiziosi: la riforma delle pensioni e l’aumento delle tasse. Il sistema pensionistico è rimasto quello sovietico: ancora oggi le donne smettono di lavorare a 55 anni e gli uomini a 60. Putin ha evitato finora di affrontare un problema così spinoso come quello dell’innalzamento dell’eta pensionabile, ma appena eletto dovrà convocare la ragioneria dello Stato e provvedere a una “riforma” che desterà sicuramente più di un malumore nella popolazione. E per quanto ciò possa dispiacere a Berlusconi, Putin dovrà anche cancellare la flat tax al 13% e tornare a forme progressive di tassazione, come ha confermato il 15 febbraio a Soci il ministro delle Finanze Anton Siluanov. «Soprattutto per questo – conclude Kondakov – il presidente ha bisogno un plebiscito tra due settimane. Si potrà così considerare legittimato a far deglutire qualche pillola amara ai russi».

L’inchiesta di Yurii Colombo è stata pubblicata su Left del 9 marzo 2018


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