Putin il suo plebiscito l’ha ottenuto. Grazie alla mobilitazione di uno straordinario apparato in cui potere esecutivo, amministrativo, gruppi economici, mass-media in gran parte coincidono, ha portato la Russia al voto. Ma può far conto su un sostegno popolare più che solamente passivo, incattivito dalla stupida propaganda russofobica occidentale, impaurito dalla crisi economica, ripiegato su se stesso dal degrado sociale che avanza.
L’insistenza con cui parte dell’opposizione russa si è concentrata sui brogli e le manomissioni nelle urne allo stesso tempo dimostra come oggi non esista ancora nessuna alternativa concreta a “Zar Vladimir”. E non perché i brogli non ci siano stati – realisticamente e conti alla mano 10 milioni di voti sono stati manipolati – ma perché il vero problema restano le prospettive complessive della società russa. Se ne sono accorte anche le cancellerie occidentali, che il giorno dopo il voto non hanno battuto tanto sul tasto delle manipolazioni, mettendo così definitivamente in panchina Alexey Navalny.
La demonizzazione di Putin serve a poco e offusca le idee: questa è la Russia di oggi, per quanto non possa piacere, è da qui che bisogna ripartire. Putin aveva bisogno del plebiscito per implementare il suo programma-economico sociale fatto di lacrime e sangue, e l’abbiamo già detto.
Qui ci preme sottolineare un altro aspetto. Il 18 marzo segna un salto di qualità dell’autoritarismo del regime. I segnali che lo hanno preceduto sono stati tanti: la persecuzione degli lgbt e degli attivisti dei diritti umani in Cecenia, la messa fuorilegge dei sindacati, l’intimidazione degli attivisti politici. Le presidenziali hanno dimostrato plasticamente che quel po’ di libertà che esiste ancora in Russia è relegato alla sfera privata e individuale mentre viene coartata ogni dimensione della libertà collettiva e pubblica. Ma l’autoritarismo è una pianta vorace. Se non incontra resistenze divora tutto. Come ha scritto Ian Shenkman a proposito del caso degli arresti qualche mese fa di un gruppo di antifascisti, su Novaya Gazeta: «Le autorità ci stanno mettendo alla prova, testando quanto spazio esiste. Se ora taciamo, non ci difendiamo l’un l’altro, sanno che potranno continuare con lo stesso spirito».
Il 6 marzo 1930 Josif Stalin firmava sulla Pravda il celebre editoriale “Vertigine del successo” in cui ammoniva il suo apparato a non farsi inebriare dai successi ottenuti contro i contadini nella collettivizzazione forzata dell’agricoltura. Putin è sufficientemente accorto da non farsi inebriare dal suo successo perché sa come è stato ottenuto e che la strada che ha intrapreso è irta di difficoltà. Tuttavia ha costruito e messo in moto una macchina-apparato difficile da controllare. Una macchina-apparto arrogante che si basa sulla sottomissione e sull’obbedienza “verticale”. E così, appena finita la campagna elettorale, la Duma ha mandato assolto il deputato neofascista Leonid Slutsky dopo le molestie sessuali nei confronti di alcune giornaliste. Non solo. A tutti i giornalisti che avevano manifestato solidarietà con le giornaliste è stato tolto l’accredito alla Duma.
Questo senso di impunità e di onnipotenza sfacciate sta incontrando però una inaspettata resistenza. I giornalisti di testate autorevoli come Vedomosti e Kommersant hanno deciso anche loro di non mettere più piede alla Duma. Ma ciò che più importante ancora che il social network Odnoklassniki (una sorta di Facebook russo con 148 milioni di iscritti) ha dichiarato anch’esso solidarietà alle giornaliste e ha protestato contro le ultime decisioni della Duma. Il Cremlino per ora tace, non si sa se indispettito o imbarazzato. Forse nel momento dell’apogeo, qualcuno sta iniziando a provare sintomi di rigetto. Se verrà difeso ogni millimetro di democrazia con le unghie e con i denti, allora non tutto sarà perduto.
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