«Penso che a bombardare con le armi chimiche la popolazione di Douma sia stato il regime di Assad». A parlare è Lorenzo Declich, esperto del mondo islamico. Declich cura il blog Tutto in trenta secondi ed è autore tra gli altri dei libri Siria, la rivoluzione rimossa (ed. Alegre) e Islam in 20 parole (Laterza). Left lo ha intervistato per cercare di fare chiarezza sui motivi dell’utilizzo di armi chimiche sulla popolazione di Douma, nella Ghouta orientale, a circa 20km ad est di Damasco.
Che idea si è fatto sull’attacco del 7 aprile scorso?
L’area colpita è l’ultima parte della Ghouta orientale ancora in mano ai ribelli. La Ghouta orientale è stato uno dei fulcri della sollevazione popolare del 2011. Inizialmente era una zona prevalentemente agricola, poi col tempo hanno cominciato a stabilirvisi molte famiglie poverissime che poi hanno appoggiato la ribellione al regime.
Diversi analisti hanno trovato similitudini tra questo ed altri attacchi chimici che ci sono stati in Siria. Se prendiamo inoltre in considerazione il tempismo con cui è avvenuto, mi viene da pensare che sia stato di nuovo il regime a colpire. Con questo attacco Assad cerca di farsi spazio al tavolo a cui siedono le potenze regionali che si stanno spartendo la Siria, spartizione che è già in corso.
Al bombardamento chimico è poi seguito l’attacco israeliano su una base militare siriana ad Homs, area molto importante dal punto di vista militare. Le uniche notizie su questo ultimo attacco vengono però da agenzie siriane, che sono profondamente influenzate dalla propaganda di regime, quindi prenderei questa notizia della responsabilità israeliana con le pinze. È pur vero però che Israele ha condotto diversi raid aerei in territorio siriano, con lo scopo di, stando al governo di Tel Aviv, limitare il traffico di armi dirette ad Hezbollah, suo nemico diretto.
Sono anni che le armi chimiche vengono usate in Siria. Cosa si può fare per impedirne l’uso?
Già nel 2013 l’allora presidente americano Barack Obama tracciò la famosa “linea rossa”, la linea oltre il quale il conflitto siriano non doveva spingersi, ovvero l’uso delle armi chimiche. Le armi chimiche vennero poi usate ma la risposta americana non ci fu. A quel punto era chiaro che i limiti che si cercava di imporre al conflitto potevano essere tranquillamente superati. Assad ora si sente sempre più libero di portare avanti questo genere di azioni militari, il cui scopo è sempre quello di mandare un messaggio, non solo ai ribelli suoi nemici, ma anche ai suoi alleati principali, Iran e Russia. E il suo messaggio è «io posso generare caos, posso creare indignazione nell’opinione pubblica mondiale come e quando voglio, quindi anche io voglio poter dire la mia sulla spartizione della Siria».
Neanche da parte della comunità internazionale c’è alcuna volontà di voler fermare gli attacchi chimici o bloccare questo processo di ripartizione del Paese. Gli effetti devastanti che questa inazione sta avendo su quel poco di popolazione civile rimasta in zone controllate dai ribelli sono sotto gli occhi di tutti.
Secondo lei è scontato che Assad a fine conflitto resterà a capo del regime siriano?
Penso proprio di sì, e mi sembra che la cosa sia stata accettata come un dato di fatto da tutti. La Russia è l’unico Paese che davvero potrebbe spingere verso un cambio dei vertici del governo di Damasco, che così facendo andrebbe però contro gli interessi dell’Iran, il più stretto alleato di Assad, il quale ha tutto l’interesse a che Assad resti al suo posto.
La sorte di Assad è nelle mani dei suoi alleati, e più volte ho detto che il dittatore siriano è un fantoccio. Assad ha svenduto completamente il suo Paese per rimanere al potere: sia la Russia che l’Iran stanno infatti facendo tutto ciò che vogliono in Siria, sia in termini militari che economici.
La Russia ha ben cinque basi militari nel Paese, di cui una a Laodicea (nota anche come Latakia, ndr), la principale città portuale siriana, in cui c’è una notevolissima presenza di cittadini russi.
L’Iran si sta invece muovendo molto sul fronte economico ed è molto impegnato nella ricostruzione delle aree a maggiore presenza sciita, già da adesso, a conflitto ancora in corso.
Cosa ci possiamo aspettare da Trump, ora?
Fino a ora la risposta Usa è stata assolutamente inefficace. Un attacco singolo, alla base aerea da cui sarebbero partiti gli aerei che hanno sganciato le bombe chimiche, senza alcuna strategia dietro. I danni sono stati minimi e l’effetto sul conflitto nullo, si trattava solo di uno specchietto per le allodole nel classico stile di Trump: mostrare i muscoli per un attimo e poi continuare a farsi gli affari propri.
Staremo a vedere se anche il bombardamento del 7 aprile spingerà gli Stati Uniti a reagire e se sarà un altro attacco fine a sé stesso o se questa volta ci sarà una strategia più ampia dietro. Avendo visto com’è la politica estera di Trump, non penso che la seconda ipotesi si realizzerà.
Il conflitto è nato a seguito delle proteste di piazza del 2011, nel contesto della primavera araba che stava attraversando diversi paesi medio-orientali. Nonostante la contestazione al regime siriano godesse del supporto di una grande porzione di popolazione, al punto da sfociare nella guerra civile, la comunità internazionale non intervenne, al contrario di quanto fece in altri paesi come la Libia. Come mai secondo lei?
La Libia è innanzitutto un Paese con riserve petrolifere e quando si tratta di combustibili, l’occidente è in prima fila a tutelare i propri interessi. Infatti, una volta che la primavera araba è arrivata anche lì, c’è stata una corsa ad intervenire.
In Siria, la comunità internazionale si è accorta tardi di quanto fosse forte il desiderio di cambiamento nel Paese, poiché la rivolta è sbocciata lentamente. È iniziata a marzo, ma le grandi manifestazioni di massa sono cominciate solo a luglio, tre mesi dopo, nonostante una repressione mostruosa, che nel tempo ha fatto migliaia di morti. Inoltre la Siria ha sempre gravitato dal lato orientale della cortina di ferro, e una volta caduto il muro di Berlino, le potenze di quella parte del mondo hanno subito cercato di guadagnare influenza per portare avanti i loro interessi nel Paese medio-orientale.
In questa situazione, tra interessi incrociati delle potenze locali e mancanza di percezione della portata della rivoluzione in atto, la comunità internazionale è rimasta un po’ a guardare, senza supportare le istanze dei rivoluzionari. Sono così subentrate le potenze della regione che hanno cominciato a finanziare i gruppi ribelli di stampo fondamentalista islamico, piuttosto che le forze democratiche che avevano dato il via alla ribellione.
Potrebbe questa inazione essere dovuta anche ad un fraintendimento di fondo della natura della ribellione al regime?
Un altro fattore che è stato spesso frainteso nelle analisi della rivolta sono le persone che l’hanno condotta. Molti giornalisti e analisti, per capire cosa stava succedendo in Siria, si sono rivolti a dissidenti o leader di vecchi partiti e movimenti d’opposizione, che però non avevano nulla a che fare con le agitazioni in corso.
A protestare, c’erano invece le nuove generazioni, completamente slegate da queste vecchie formazioni e vecchie ideologie. Quello per cui manifestavano erano più diritti: economici, civili, politici e la possibilità di sviluppare appieno la propria individualità, cose che vengono completamente negate e osteggiate in una dittatura.