Il declino del Partito comunista della federazione russa (Pcfr) è proseguito inarrestabile anche nelle ultime elezioni presidenziali del marzo 2018. La parabola del Pcfr nelle elezioni presidenziali non necessita di commenti. Nelle precedenti presidenziali Gennady Zjuganov aveva ottenuto queste percentuali: 32,0% (primo turno 1996), 40,3% (ballottaggio con Eltsin 1996), 29,2% (2000), 17,7% (2004), 17,1% (2012). Nel 2008 si era presentato il grigio uomo di apparato Nikolaj Charitonov raccogliendo il 13,7%. Nel 2018 Pavel Grudinin ha conquistato solo l’11,8%.
Il Pcfr nacque nel 1993 non come erede del disciolto Partito comunista dell’Urss, ma come un prodotto peculiare di diverse eredità e pulsioni presenti all’interno della transizione russa degli anni Novanta. Da una parte le tendenze più staliniane e burocratiche del Pcus. Per questo motivo Sergio Romano ha paragonato il partito di Zjuganov il Pcfr al Msi italiano. Così come il Msi esprimeva sì la nostalgia verso il fascismo ma nella sua espressione “repubblichina”, il Pcfr esprime la nostalgia non tanto verso l’Urss in generale (nostalgia che attraversa a vari livelli tutta la società russa) ma quella dell’epoca staliniana. D’altra il PCFR sin da subito fu anche il magnete per altre aspirazioni e tendenze che albergavano in Russia. Fu l’espressione di un forte richiamo nazional-patriottico che superava la contrapposizione della guerra civile tra bianchi e rossi, dell’esaltazione della missione storica della “Rus’” come impero euroasiatico, dell’antisemitismo strisciante da sempre presente nella società russa, del recupero del ruolo di collante della Chiesa Ortodossa. Tutto ciò nella Russia eltsiniana dominata dalla corruzione, dalla crisi sociale, della decadenza degli apparati statali si trasformò in un blocco sociale che probabilmente se non ci fossero stati i brogli e la mobilitazione di grandi interessi non solo su scala russa, sarebbe stato in grado portare Zjuganov a vincere le presidenziali del 1996.
L’ascesa di Putin che è diventato l’alfiere del sovranismo, della “dittatura della legge”, della ripresa economica con elementi redistributivi, dell’alleanza strategica con il patriarcato di Kirill, del nuovo protagonismo internazionale della Russia ha in gran parte prosciugato lo spazio sociale e politico del Pcfr. Che è sempre di più diventato un partito marginale che si limita a criticare questa o quella misura della governo putiniano senza essere in grado – prima di tutto per i suoi limiti culturali – di proporre un’alternativa al regime esistente.
Il Pcfr è arrivato alle presidenziali del 2018 in uno stato di completa prostrazione. Nelle elezioni per la Duma del 2016 aveva perso 6% rispetto alla tornata precedente. La composizione sociale e per classi d’età del partito del 2017 fornisce un quadro esplicito della sua situazione interna. L’età media dei 162mila iscritti è di 55,6 anni. I pensionati sono il 42,5% e i giovani fino ai 30 anni solo l’11,6%. Dal punto di vista sociale gli operai sono il 7%, gli impiegati il 6,5% mentre ben il 2,1% sono imprenditori o dirigenti d’azienda (i cosiddetti “direttori rossi”).
E tra quest’ultimi alla fine è stato scelto il candidato per le presidenziali del 2018. A dicembre nei sondaggi il candidato nominato dal comitato centrale del partito era ancora Gennady Zjuganov. I sondaggi lo davano al 5-6%, superato anche da Vladimir Zhirinovskij. Così proprio alla vigilia di Natale, le strutture del partito si riunivano nel disperato tentativo di mettere una pezza al disastro annunciato. E dal cilindro usciva il coniglio della candidatura di Pavel Grudinin.
Pavel Grudinin è un imprenditore del settore agroalimentare che ha avuto successo costruendo un’azienda modello vicino a Mosca grazie anche alla speculazione. Esordì in politica nei primi anni 2000 con Russia Unita e per qualche tempo fu poi vicino allo xenofobo Zhirininovskij per poi approdare all’area del Pcfr. E infatti si è presentato alle presidenziali dello scorso marzo in qualità di indipendente. Ha puntato sull’elettorato deluso da Putin perla crescente corruzione del suo apparato e sui settori sociali più puniti dalla crisi economica degli ultimi anni (intercettandoli soprattutto in Siberia). È cresciuto costantemente nei sondaggi negli ultimi due mesi prima delle elezioni, creando qualche grattacapo allo staff di Putin raccogliendo simpatia e interesse persino nell’area “liberal” (quella più moderata e nazionalista) dell’elettorato. Non ha potuto invertire la storica tendenza al declino del Pcfr ma raccolto settori dell’elettorato lontani culturalmente dalla sua tradizione. In questo senso il fatto di essere emanazione del Pcfr lo ha persino frenato. Nelle interviste si è richiamato sia alla socialdemocrazia del Nord Europa ma anche al modello cinese, ma è apparso imbarazzato e non a suo agio nella rivendicazione dello stalinismo.
Forse non sarà in grado di salvare il Pcfr dal suo destino storico ma potrebbe costruire nel prossimo futuro una coalizione politica e sociale intorno a sé che vada oltre il nostalgismo. Non sarebbe certo la sinistra di cui necessita questo Paese ma, forse, un (piccolissimo) passo avanti in quella direzione.
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