Le delusioni per gli insuccessi dello scorso decennio, la crisi che ruba tempo all’attivismo, le spaccature su Assad. Tutto ciò ha indebolito il movimento no war che incuteva timore alle superpotenze. Oggi, assente nelle piazze, si sposta nel web e cerca una rivincita nelle battaglie mediatiche

Lo chiamavamo anche «Oceano pacifico» (Liberazione nel 2003), e perfino «Seconda potenza mondiale» (il New York Times). E colorava le città di bandiere arcobaleno, riempiva le piazze, bloccava i treni, occupava le banchine dei porti, assediava le basi. Discuteva, marciava, era trasversale. Nulla, sembrava, sarebbe stato come prima. Invece nulla è come allora.

Il 22 febbraio 2003, contro il conflitto in Iraq, si mobilitarono in 24 milioni in Europa, 3 milioni a Roma e 110 in 603 città di tutto il pianeta. «Il ciclo delle grandi mobilitazioni altermondialiste, la rivolta per le aspettative tradite dalla globalizzazione, si tramutò nel grande movimento contro la guerra e fece paura più del Sessantotto con percentuali di consenso altissime nella società – spiega Loris Caruso, sociologo dell’Università di Firenze – ma poi la crisi ha funzionato come azzeramento delle aspettative». Come dire: più speri, più ti mobiliti. «Ma le situazioni cambiano, i movimenti sembrano sempre esplodere dal nulla».

Dove sono oggi i pacifisti in un Paese che partecipa a 32 missioni “di pace” e “ospita” 113 tra basi e installazioni Usa e Nato? «La crisi della mobilitazione pacifista è la stessa delle altre grandi mobilitazioni di massa, a partire da quelle sindacali e della sinistra», spiega a Left Maurizio Simoncelli, vicepresidente di Archivio disarmo. Quella che non è in crisi è…

L’inchiesta di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola


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