Nato come movimento contro le mine, ha ripreso piede dopo la morte di un gruppo di uomini Pashtun a Karachi ad opera della polizia. Sfilano per le strade con le foto dei loro parenti uccisi o detenuti nelle carceri

Pashtun contro la guerra. Contro i talebani, contro gli islamisti, ma anche contro l’esercito pachistano. Un nuovo movimento secolare si sta espandendo nel Nord del Paese, guidato da un giovane attivista, Manzoor Pashteen, 26 anni. Molti altri ragazzi lo seguono perché «abbastanza è abbastanza. Questa regione non è un campo di battaglia».

Si chiama Pashtun Tahafuz Movement, movimento per la protezione dei Pashtun, in tre lettere: Ptm. Nato quattro anni fa, chiedeva lo sminamento della regione del Waziristan, Pakistan nord-ovest.
Dopo anni di silenzio, a gennaio 2018, è rinato, rinvigorito da un’altra scia di lotta civile: stesso nome, forze e istanze diverse, che stanno scuotendo la società pachistana. I membri del Ptm chiedono diritti e sicurezza, si battono affinché i colpevoli della violenza contro la loro minoranza paghino per quello che compiono quotidianamente. Vogliono che Islamabad metta fine ad omicidi illegali, sparizioni forzate, arresti sommari delle forze dell’ordine.

Non ci sono bandiere alle loro manifestazioni: solo ritratti, fotografie, nomi. Di chi è morto, scomparso o arrestato senza accuse o prove, e non è mai più tornato a casa. Il Ptm è un movimento rinato nel sangue, dopo la morte di un gruppo di uomini di un’area tribale Pashtun, ammazzati a gennaio a Karachi dalla polizia, accusata di aver messo in scena una finta sparatoria per questi assassini extragiudiziali.

Il movimento chiede la fine «delle sparizioni forzate, costante insulto al popolo Pashtun, fine della violazione dei nostri diritti», dice il membro del movimento Ali Wazir: «riceviamo minacce dalle istituzioni statali, proprio come dai “buoni talebani”. Un altro leader del movimento, Moshin Dawar, ha detto che parlare apertamente delle azioni «dei militari in Pakistan è un suicidio», definirli oppressori e condannare checkpoint e il coprifuoco imposto alle aree tribali è più che pericoloso, come parlare dell’Isi, servizi segreti del Paese, ad alta voce. «Abbiamo passato gli ultimi due mesi a difenderci dalle accuse di essere agenti stranieri e di lavorare per gruppi di potere. Ma tutto quello che possiamo fare è mantenere il morale alto, il nostro primo errore sarà anche l’ultimo» ha detto Pashteen.

Sono migliaia quelli che in tre mesi hanno cominciato a partecipare alle marce, portando per le strade i ritratti dei cari morti, scomparsi o detenuti dalle istituzioni senza prove o processo. Per quanto li tollereranno le autorità? Se lo chiedono ogni volta che occupano le strade, hanno paura ma anche coraggio. Lo scorso 8 aprile diecimila persone hanno marciato a Peshawar, nel Nord del Paese. Il capo delle forze armate, il generale Qamar Javed Bajwa, ha già dichiarato che «queste proteste pianificate minacciano gli sforzi dell’antiterrorismo nazionale militare degli ultimi anni».

I Pashtun costituiscono il 15 per cento della popolazione del Pakistan, 204 milioni di persone. «Migliaia di giovani Pashtun sono scomparsi nell’ultimo decennio, prelevati dalle loro case, dalle università, dalle strade» dice un attivista del Movimento Farhad Ali. Eppure nessuno lo dice, lo scrive, lo ribadisce.

Nessun titolo dei giornali del Paese è dedicato al Ptm, nessun reporter locale è presente alle loro manifestazioni, scriverne vuol dire «varcare la red line per la sicurezza dell’establishment del Paese», scrive il New York Times. «In buona parte si tratta di auto-censura, non puoi chiedere a singoli individui, singoli giornalisti di diventare martiri della libertà di espressione» ha detto Saroop Ijaz, rappresentante Human Rights Watch. Censure, minacce, violenza. Ma, dice Pashteen, per i nostri diritti «non c’è altra opzione, dobbiamo continuare, è l’ultima nostra possibile opzione».