Un caso giudiziario che ha sconvolto il Paese, da quando, il 22 aprile 1993 vene accoltellato un ragazzo di 18 anni. Venticinque anni dopo si ricorda quella vicenda ma il fratello lancia un nuovo allarme

Murdered because of the color of his skin, ucciso per il colore della sua pelle. Stephen era solo un teenager che passeggiava per le strade del sud est di Londra, quando è stato ammazzato a Eltham la notte del 22 aprile 1993 durante un’aggressione a sfondo razziale. Venticinque anni dopo il fratello Stuart lancia di nuovo l’allarme: «Temo per la mia vita».

Ma cos’era accaduto in quell’aprile del 1993? «L’omicidio che ha cambiato la nazione», come lo chiama la Bbc che ne fa una storia accurata, tappa per tappa, risale a 25 anni fa, ed è un caso giudiziario che ha segnato per sempre la storia del Paese. La Gran Bretagna fu costretta a confrontarsi con il suo razzismo, quello dei suoi cittadini, ma soprattutto quello delle sue istituzioni che intralciarono le indagini, nel 1993. Un quarto di secolo dopo la morte di Stephen Lawrence i conti col passato non sono ancora chiusi. Eppure è tempo che accada, dice la madre del giovane, Doreen.

Il 23 aprile 1993, un giorno dopo l’omicidio di suo figlio, una lettera anonima con i nomi dei sospetti assassini viene lasciata in una cabina telefonica a Eltham. Accanto al numero 1 cerchiato c’è il nome di Neil Acourt. Segue quello di Dave Norris, Jamie Acourt e il numero 4: Gary Dobson. La polizia comincia a sorvegliarli quattro giorni dopo. Il 4 maggio però la famiglia di Lawrence è delusa: non si sta facendo abbastanza per trovare i responsabili della morte del ragazzo. Le conferenze che tengono via via per denunciare i ritardi della giustizia sono pubbliche, durante una di queste c’è un ospite illustre: Nelson Mandela.

Arriva il giugno del 1993: i due fratelli Acourt, Neil e Jamie, il numero uno e tre della lista, vengono arrestati, insieme a David Norris e Gary Dobson. Neil e un altro membro della gang, Luke Knight, vengono identificati come responsabili dell’omicidio, ma respingono le accuse. Le prove non sono abbastanza, vengono scarcerati. Ma la battaglia dei Lawrence continua: nel settembre 1994 lanciano una private prosecution, un procedimento privato contro le stesse persone, che però fallisce di nuovo. I tre sono a piede libero, acquitted, assolti. La disputa legale va avanti per anni ed anni. Fino al 1998, quando il giudice sir William Macpherson conclude che le indagini svolte erano state intralciate dalle forze dell’ordine stesse, perché Stephen era nero. Razzismo dei killer, razzismo della società, ma soprattutto delle autorità: chi doveva rendergli giustizia, il Crown Prosecution Service, non lo aveva fatto abbastanza, perché si trattava di un cittadino di colore e non di un bianco. Oggi si riferiscono tutti al rapporto Macpherson come a «una delle decisioni più importanti della giustizia criminale della storia moderna britannica». Perché per la prima volta la questione non veniva taciuta e nascosta con ipocrisia.

I membri della gang che hanno ucciso Stephen sono finiti in prigione solo nel 2012, 19 anni dopo le ferite letali inferte al giovane, ucciso per strada quando aveva 18 anni solo perché aveva la pelle nera e passeggiava nei dintorni, quella notte ad Eltham. Altro motivo non c’era.

Neville Lawrence ha ormai i capelli bianchi. I fiori che lascia sul marciapiede dove è stato ucciso suo figlio sono dello stesso colore. Dice di aver perdonato i killer di Stephen. Quello che gli è successo, è, in qualche modo, successo all’intero Paese.

La storia di Stephen è diventata il simbolo della battaglia contro il razzismo in Gran Bretagna e il Paese in questi giorni lo ricorda. Il fratello di Stephen, Stuart, ha portato avanti questa battaglia e la sua memoria, ma tutti sanno dove abita. Sia la famiglia della gang, sia i membri della polizia, che «dovevano servire e proteggere, ma hanno protetto e servito solo se stessi e i criminali, questo è assolutamente diabolico». Stuart ha paura di morire e di essere ucciso come suo fratello, perché forse le cose non sono cambiate del tutto, ma dice di avere una cosa più importante da fare, un esempio di lotta per la giustizia da continuare a mostrare a suo figlio.