Autore di pellicole come Videocracy e La teoria svedese dell’amore, il regista italo-svedese Erik Gandini è a Roma, dal 27 al 29 aprile, per la sua prima retrospettiva italiana, organizzata da Blue Desk al cinema Trevi

Erik, tu che fai un tipo di cinema permeato sempre da uno sguardo politico, pensi che destra e sinistra non esistano più?
I ‘binomi’ sono intriganti perché ci aiutano a navigare in un mondo frammentario e complesso, rendendo la realtà più facile, comprensibile. È comodo pensare che ci sia da una parte il giusto e dall’altra lo sbagliato, è un bisogno naturale che abbiamo. Un ricercatore americano, Barry Schwartz, studia come il consumismo moderno abbia reso le scelte molto più difficili, moltiplicando l’offerta fino all’inverosimile.

È il Paradox of choice, che anziché dare libertà, paralizza. Less is more. La politica sembra aver capito questo paradosso meglio dell’economia di mercato e ci mette ancora di fronte a questa dicotomia. Lavorare con il documentario negli ultimi anni ha significato, per me, sempre di più dover riconoscere invece la complessità della realtà per cercare una narrativa che vada oltre la semplificazione.

Potremmo dire che ormai per leggere il contemporaneo non servono vecchi paradigmi o che ne servono altri, ad esempio Nord/Sud?
Per me fare un film come La teoria svedese dell’amore è stato mettere in crisi una dicotomia che mi coinvolge personalmente, quella della superiorità del Nord verso il Sud, secondo la quale noi al Nord Europa abbiamo realizzato la società più moderna del mondo e quindi non abbiamo più nulla da imparare dal Sud. Con la conseguenza, peraltro, che chi arriva come migrante può solo apprendere da noi. C’è un rischio vero e proprio in…

L’intervista di Simone Amendola ad Erik Gandini prosegue su Left in edicola


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