Dagli anni Ottanta si sono crete sempre più aree marginali in cui i diritti vengono negati e di cui la politica si interessa solo per l'ossessione della sicurezza. La denuncia di studiosi ed esperti che partecipano al convegno dell'associazione 21 luglio dall'11 al 13 maggio all'Università Tor Vergata

In senso lato, la povertà è l’impossibilità di soddisfare bisogni essenziali. Con la qualificazione di ‘urbana’ si potrebbe agevolmente traslarne la portata alle forme di povertà tipiche delle città. Troppo semplicistico, dicono gli esperti (che ne discuteranno nel convegno Confini al centro, verso una nuova giustizia sociale, organizzato dall’Associazione 21 luglio, dall’11 al 13 maggio, a Roma, università Tor Vergata).

«Non è semplice definire la povertà urbana poiché, convenzionalmente, esistono modi diversi di definire e, conseguentemente, rilevare empiricamente o, come preferiscono dire economisti e statistici, misurare la povertà», spiega a Left, Enrica Morlicchio, professoressa ordinaria presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli Studi Federico II di Napoli. Che continua: «La povertà urbana interessa soggetti che vivono in centri urbani di medie e grandi dimensioni che, in aggiunta alla difficoltà di soddisfare i bisogni famigliari e individuali, sperimentano forme di segregazione e di difficoltà nel ricorso all’autoproduzione e all’autoconsumo».

Le cause, molteplici, sono da ricercarsi in un mutamento graduale (e nemmeno troppo) della fisionomia delle città e delle condizioni economiche a cui la politica non ha saputo replicare in maniera corrispondente. Anzi, a dirla tutta, ne è stata anche responsabile.
«Dagli anni Ottanta, in Italia, abbiamo assistito a una trasformazione di aree periferiche delle metropoli italiane dovuta alla costruzione di grandi quartieri di edilizia residenziale pubblica dove concentrare il disagio sociale e al graduale afflusso di cittadini e famiglie immigrate», specifica il presidente dell’Associazione 21 luglio, Carlo Stasolla. «Negli stessi anni – aggiunge – la politica dei ‘campi nomadi’ ha inaugurato nel nostro Paese, un modello razziale di relegazione e iper-ghettizzazione». Generando una nuova forma della povertà «caratterizzata non solo dall’assenza di risorse economiche ma anche dalla rottura dei legami e dalla esclusione sociale, segnata da un isolamento spaziale e relazionale: ci troviamo di fronte a una ‘urbanizzazione della povertà’, dove la segregazione sociale, appunto, si declina in diverse forme».

Dai quartieri per ceti benestanti agli spazi periferici popolati da gruppi a minore reddito, aree omogenee per lingua e religione, campi nomadi, baraccopoli per stranieri, ghetti popolati da lavoratori stagionali e centri di accoglienza per richiedenti asilo. E, così, «oggi l’Italia, dopo la crisi economica e bancaria, esplosa nel 2008, si presenta come un Paese fragile dove la povertà è una caratteristica endemica delle città», conclude Stasolla.
E, però, «il concetto di fragilità è utilizzato solitamente in maniera banale e banalizzante da parte delle istituzioni, incapaci di comprendere i problemi strutturali e politici alla base dei processi di impoverimento, ai quali si risponde, da anni, con polizia, vigili urbani e retoriche securitarie», dice Gennaro Avallone, ricercatore presso l’Università di Salerno. Precisando che «nei discorsi pubblici e dell’azione politica sono scomparsi gli obiettivi dell’uguaglianza e della giustizia, ed è rimasto solo lo spazio per l’ossessione per la sicurezza».

Persa ogni vocazione (umanamente) produttiva, le politiche (austere) hanno incattivito e ridotto alla rassegnazione le città che tendono, sempre più, a scaricare le loro paure verso il basso. E con forza centrifuga, verso le periferie che, stravolgendo la mappa urbanistica e sociale, si fanno metropoli senza infrastrutture e senza servizi e producono forme di vita senza rappresentanza.
E invece, «queste politiche – suggerisce Avallone – potrebbero muovere dal riconoscimento della capacità di organizzazione delle persone in povertà: invece di penalizzare – come fa l’articolo 5 del decreto Lupi, per esempio – chi vive in occupazioni abitative, si potrebbe riconoscere, anche dal punto di vista istituzionale, la ricchezza di queste esperienze (collettive) e le proposte che avanzano».

Con le città svuotate del loro abitare e riempitesi negli spazi vuoti e negli interstizi, per Avallone «la povertà urbana è la negazione del diritto alla città, del diritto a vivere dove si lavora, dove ci sono i propri affetti e le proprie attività». Ad esempio, «diritto alla città vuol dire vivere dove i propri figli vanno a scuola e non dovervi rinunciare a causa della combinazione tra fitti che salgono – favoriti dalla valorizzazione della rendita fondiaria – precarietà lavorativa e assenza di politiche attive per la casa», chiosa Avallone.

E se «i fattori della povertà urbana, come la precarietà lavorativa, sono riferibili al più generale sistema sociale, la specificità di ‘urbana’ è, semmai, per indicare le manifestazioni ‘nuove’ o tendenziali della povertà e, in particolare, le sue forme più problematiche ed estreme: marginalità ed esclusione sociale», precisa Antonio Tosi, professore di Sociologia urbana presso il Politecnico di Milano. Marginalità ed esclusione che stanno mettendo a dura prova la tenuta della democrazia e della libertà individuale.