Se l'avesse scritto Roberto Bolaño quella notte di Sapelli sarebbe stata la trasposizione di Auxilio Lacouture, la poetessa uruguaiana che rimase chiusa nascosta nei cessi dell'università di Città del Messico durante tutta l'occupazione militare del 1968, come raccontato nel romanzo I detective selvaggi. Io me lo immagino, Giulio Sapelli, con tutto l'amore che ha per se stesso come capita a noi, così terribilmente deboli quando ci capita di raccontarci agli altri. «Una delle voci più originali e fuori dal coro tra gli economisti italiani», scrive Sapelli di Sapelli presentandosi sul suo sito, come parlano di sé in terza persona certi professori incassati nei propri completi con troppe spalline, quelli che si schiacciano i capelli di lato prima di parlare per affilarsi e sembrare più appuntiti. Mi immagino «l'intellettuale poliedrico» Sapelli (sì, si autodefinisce anche così) che riceve la telefonata nella sua abitazione che profuma di carta (e di quella polvere che si lascia perché sta così bene con la letteratura) in cui gli si chiede di incontrare i due partiti che provano a brigare un governo. Lo vedo che sceglie il vestito buono, che si passa la mano sul mento per verificarne la liscezza e che durante il tragitto si allena ad essere autorevole e convincente, schiarendosi la voce nell'umido romano. Lo vedo mentre stringe le mani sentendo il profumo della scelta, lo sento discutere del programma di governo pregustando la dolce chiamata a "servire la patria", dire no grazie io non prendo niente ho già bevuto il caffè perché i professori smettono presto la litania della cena e del dopo cena predisposti a indaffararsi subito di nuovo e mi immagino il sorriso mentre rincasa. Se dovessi osare, intravedo uno di quei saltelli a schioccare i tacchi, anche solo immaginato nella testa, come moto di gioia e soddisfazione. Una notte da presidente del consiglio è un sabato del villaggio che cade di capodanno. Chissà che acquolina gocciola in bocca in una notte così. E invece Giulio Sapelli, ieri, ha saputo che di Sapelli non è mai interessato a nessuno lì sopra. Ha letto l'agenzia di stampa che deve essergli risuonata come un epitaffio: «Mai pensato a Sapelli» dicono di lui i protagonisti della politica romana. Chissà che malinconia. Forse avrà frainteso. Avrà sbagliato una frase di quelle che aveva maledettamente soppesato preparandosi all'incontro. O forse era solo un pourparler preso troppo sul serio. Chissà che tedio Sapelli, di quello che capita per delusione a chi prende sul serio cose e persone da non prendere troppo sul serio. Buon martedì.

Se l’avesse scritto Roberto Bolaño quella notte di Sapelli sarebbe stata la trasposizione di Auxilio Lacouture, la poetessa uruguaiana che rimase chiusa nascosta nei cessi dell’università di Città del Messico durante tutta l’occupazione militare del 1968, come raccontato nel romanzo I detective selvaggi.

Io me lo immagino, Giulio Sapelli, con tutto l’amore che ha per se stesso come capita a noi, così terribilmente deboli quando ci capita di raccontarci agli altri. «Una delle voci più originali e fuori dal coro tra gli economisti italiani», scrive Sapelli di Sapelli presentandosi sul suo sito, come parlano di sé in terza persona certi professori incassati nei propri completi con troppe spalline, quelli che si schiacciano i capelli di lato prima di parlare per affilarsi e sembrare più appuntiti.

Mi immagino «l’intellettuale poliedrico» Sapelli (sì, si autodefinisce anche così) che riceve la telefonata nella sua abitazione che profuma di carta (e di quella polvere che si lascia perché sta così bene con la letteratura) in cui gli si chiede di incontrare i due partiti che provano a brigare un governo. Lo vedo che sceglie il vestito buono, che si passa la mano sul mento per verificarne la liscezza e che durante il tragitto si allena ad essere autorevole e convincente, schiarendosi la voce nell’umido romano.

Lo vedo mentre stringe le mani sentendo il profumo della scelta, lo sento discutere del programma di governo pregustando la dolce chiamata a “servire la patria”, dire no grazie io non prendo niente ho già bevuto il caffè perché i professori smettono presto la litania della cena e del dopo cena predisposti a indaffararsi subito di nuovo e mi immagino il sorriso mentre rincasa. Se dovessi osare, intravedo uno di quei saltelli a schioccare i tacchi, anche solo immaginato nella testa, come moto di gioia e soddisfazione.

Una notte da presidente del consiglio è un sabato del villaggio che cade di capodanno. Chissà che acquolina gocciola in bocca in una notte così. E invece Giulio Sapelli, ieri, ha saputo che di Sapelli non è mai interessato a nessuno lì sopra. Ha letto l’agenzia di stampa che deve essergli risuonata come un epitaffio: «Mai pensato a Sapelli» dicono di lui i protagonisti della politica romana.

Chissà che malinconia. Forse avrà frainteso. Avrà sbagliato una frase di quelle che aveva maledettamente soppesato preparandosi all’incontro. O forse era solo un pourparler preso troppo sul serio. Chissà che tedio Sapelli, di quello che capita per delusione a chi prende sul serio cose e persone da non prendere troppo sul serio.

Buon martedì.