L'editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola
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[su_divider text=" " style="dotted" divider_color="#d3cfcf"]Per sfuggire alla profonda crisi in cui versa il Bel paese sono molti gli italiani che studiano modi per trasferirsi dove il costo della vita è più basso e la qualità della vita potenzialmente migliore. In particolare sono pensionati e giovani che vogliano studiare o mettere su una propria attività. Fra le mete più gettonate c’è il Portogallo. Perché negli ultimi anni, anche grazie a una fortunata congiuntura economica, è andato incontro ad una rapida crescita ma anche e soprattutto perché con il governo di sinistra insediatosi nel 2015, il Paese si è modernizzato aprendosi a nuove prospettive. L’alleanza di governo guidata dal socialista António Costa ha detto no all’austerity, cercando di riqualificare i servizi pubblici, di salvaguardare salari e pensioni andando incontro a una fase di crescita. Il Programa de estabilidade 2018-2022 presentato da Mario Centeno, ministro delle Finanze lusitano e presidente dell’Eurogruppo, segnala un debito alto, ma anche una crescita annuale stimata sopra il 2% mentre l’occupazione è salita del 3,2%.
Un quadro piuttosto sorprendente in un Paese che fino a non molti anni fa ha subito l’oppressione della dittatura clericofascista di Salazar: un regime da sacrestia, come denunciava Saramago, che chiuse il Paese in una bolla isolazionista e impose l’idea che il popolo dovesse vivere in modo povero e frugale ostacolando ogni forma di progresso paventato come forma di corruzione.
Ma il Portogallo – va ricordato – ha anche vissuto un importante momento di rottura, incruenta, come la Rivoluzione dei garofani del 1974. E forse, azzardiamo, anche perché ha conosciuto un forte rifiuto del passato fascista (senza una transizione-amnesia come quella imposta in Spagna) oggi una nuova sinistra può rinascere. In ogni caso, anche tralasciando affascinanti ipotesi di ricerca, i fatti politici concretamente accaduti negli ultimi tre anni in Portogallo ci appaiono assai interessanti.
Invece di rincorrere le destre sul loro terreno come ha fatto il centrosinistra in Italia, invece di sposare le politiche neoliberiste della cosiddetta “terza via” blairiana, António Costa ha guardato a sinistra, cercando alleanze con il Bloco de esquerda (Be) e con il Partido communista português (Pcp). Un’alleanza del tutto inedita nella giovane storia della democrazia che conta solo una quarantina d’anni. Un accordo che ha chiesto un lungo lavoro di mediazione, pur tra luci e ombre. Per capire cosa c’è dietro l’eccezione lusitana rispetto al quadro della crisi delle socialdemocrazie europee abbiamo chiesto a colleghi giornalisti e a studiosi che vivono e lavorano in Portogallo e conoscono quella realtà dall’interno di aiutarci a tracciare un bilancio di questi primi due anni e mezzo di governo Costa. Ma anche di aiutarci a leggere la prospettiva aperta dal Bloco in chiave europea, visto che una delle sue più stimate esponenti, Marisa Matias, è parlamentare Ue attiva nella Gue/Ngl.
Nato nel 1999, dal 2015 il Bloco ha preso parte all’accordo di governo con socialisti, comunisti e verdi, raccogliendo molti consensi fra i più giovani. Da notare anche che il partito è guidato da tre donne che hanno messo al centro i diritti sociali e civili. Detto tutto questo, non intendiamo con questa storia di copertina promuovere astrattamente il Portogallo a modello.
Aver imboccato e percorso la strada della mediazione ha prodotto grossi risultati ma ha avuto anche un prezzo, come raccontano gli approfondimenti che qui proponiamo. Tuttavia abbiamo pensato che potesse essere molto utile, offrire strumenti di lettura per comprendere l’eccezione lusitana, con l’intento di aprire una discussione a sinistra.