In una recente pubblicazione di Thomas Piketty, di cui ho avuto occasione di parlare anche nelle pagine di Left, risulta che la Russia di Eltsin e Putin abbia raggiunto il livello di diseguaglianza sociale simile a quella che c’era prima della rivoluzione russa del 1905. Ma nella ricerca di Piketty c’è un’altro dato che sorprende: il tasso più basso diseguaglianza in Russia si raggiunse nel periodo brezneviano.
Brežnev ascese alla carica di segretario del Pcus nel 1964 e vi rimase fino alla morte avvenuta nel 1982. La sua reggenza ai vertici dello stato sovietico è stato denominato il periodo della zastoj ovvero della stagnazione. Stagnazione che va intesa però non semplicemente in senso economico. In realtà – al netto dei dati gonfiati dei piani quinquennali – l’economia sovietica crebbe significativamente anche negli anni settanta. La Cia riteneva la società sovietica stabile. La stagnazione ebbe caratteri sociali e culturali. Appena giunto al potere Brežnev sembrò voler proseguire sulla strada intrapresa da Kruscev del “disgelo” favorendo il pluralismo economico e sociale. Ma ben presto fu tirato il freno: la libertà di critica all’interno del partito fu messa al bando, i dissidenti finirono nei manicomi, la musica pop-rock fu denunciata sulla stampa come un fenomeno “borghese”. Nelle scuole venne imposta la lettura della trilogia autobiografica di Brežnev, Stalin venne parzialmente riabilitato in chiave ipernazionalistica.
Ma a scalpitare furono soprattutto il mondo della cultura e i giovani. Gli operai erano perlopiù tranquilli: i salari non erano alti ma nei negozi (specialmente nelle grandi città) si trovava quasi tutto, i ritmi di lavoro erano bassi e l’assenteismo generalizzato. Poi c’erano i benefit: colonie estive gratuite per tutti i bambini e un paio di settimane sul Mar Nero per le famiglie. Alle giovani coppie che si sposavano veniva garantito in linea di massima un alloggio di due camere con servizi (anche se il fenomeno della coabitazione continuò ad esistere fino alla fine dell’Urss). I problemi si concentravano soprattutto nella scarsa qualità dei prodotti dell’industria leggera e in taluni casi in una loro mancanza assoluta (defizit) che alimentava un risparmio forzato dei cittadini. Tanto per capirci: i jeans e calze di nylon che in Urss non venivano prodotti o importati si trovavano solo al mercato nero al prezzo di interi salari mensili.
I privilegi della burocrazia e dei lavoratori altamente professionalizzati erano conosciuti da tutti ma non mostrati con sfacciataggine. I papaveri di partito e i funzionari di alto rango (činovniki) riposavano in dacie con la sauna privata lontani da occhi indiscreti e potevano accedere a magazzini speciali dove potevano acquistare a prezzi stracciati cibi e alcoolici del mondo capitalista. Brežnev aveva il pallino delle auto, ne collezionò parecchie e probabilmente alla sua tavola non mancò mai il caviale nero. Kosygin amava gli abiti inglesi in fresco lana all’ultima moda… Tuttavia di questo e non altro si trattava e le ricchezze della nomenklatura sovietica non possono essere paragonate neppure lontanamente ai patrimoni di oligarchi quali Abramovic o Potanin della Russia di oggi. La ridotta diseguaglianza, basata su un compromesso sociale tra burocrazia e operai, funzionò in Urss ma rese il paese sempre più inerte e passivo. Innovazione e partecipazione non vennero favorite nelle aziende e in mancanza di meccanismi regolatori di mercato la società sovietica si ripiego sempre più su stessa. Quando poi il prezzo mondiale del petrolio calò non poterono più essere finanziate le importazioni di tecnologia e prodotti agricoli; il fardello del complesso militar-industriale divenne insopportabile. Ma qui siamo già a ieri, o all’atro ieri, alla perestrojka e al crollo dell’Urss.
Forse, allora, una delle riflessioni che è mancata alla sinistra negli ultimi decenni, proprio sulla base di quella vicenda, è stato il rapporto tra mercato e distribuzione delle ricchezze e delle risorse, del rapporto tra qualità della crescita economica e uguaglianza. Il ritardo su questo terreno è diventato enorme, è vero, ma chi non comincia non sarà mai neppure a metà dell’opera. E non permetterà di fare un bilancio veritiero sull’epoca sovietica.
Buongiorno Mosca,
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