Siccome il fenomeno delle occupazioni arbitrarie di edifici pubblici e privati, a Roma, ha raggiunto dimensioni allarmanti, il Comitato metropolitano per l’ordine e la sicurezza ha (silenziosamente) elaborato un “protocollo operativo per superare le criticità che rallentano o impediscono la conclusione delle operazioni di censimento degli occupanti”. Di fronte a novanta stabili occupati, di cui sessantaquattro con destinazione abitativa e ventisei destinati a centri sociali - cinquantatré di proprietà di enti pubblici e trentuno di privati - e per dare esecuzione alle indicazioni formulate dal ministero dell’Interno nella circolare del primo settembre del 2017, il Comune di Roma ha stabilito criteri e modalità con cui dovranno essere effettuati gli sgomberi. Sulla carta, il Comitato metropolitano sembrerebbe mosso da buone intenzioni quando scrive che «il censimento degli occupanti (è) necessario perché l’esecuzione degli sgomberi avvenga considerando la difesa dei nuclei famigliari in condizioni di disagio economico e sociale». Ma specificando che il censimento «è uno dei fattori di criticità nella gestione delle occupazioni» per l’ostilità degli occupanti all’ingresso del personale dei servizi sociali di Roma Capitale, tradisce i migliori intenti, celando (e manco troppo) preoccupazioni relative alla sicurezza, al decoro urbano e all’ordine pubblico. Il sospetto si fa certezza quando nel Protocollo operativo censimento occupanti abusivi di immobili si leggono i criteri di priorità che devono contemperare «il diritto alla tutela delle famiglie indigenti con la situazione di ordine e sicurezza pubblici, i possibili rischi per l’incolumità degli abitanti e la salute pubblica, derivanti dalla condizione degli edifici occupati, i diritti dei proprietari e le misure assistenziali» che le istituzioni devono assicurare. E se le finalità del censimento sembrerebbero trovare giustificazione «nell’individuazione di situazioni di fragilità», la realtà è che «deve ritenersi prioritaria, rispetto al diritto all’abitare, la tutela dell’incolumità fisica e della salute degli occupanti», si legge. I toni di un editto si fanno forti e chiari per Alterego-Fabbrica dei diritti, associazione che, attraverso un formale accesso agli atti, è entrata in possesso del verbale della seduta del Comitato Metropolitano del 22 Gennaio 2018 e che quelle realtà le conosce profondamente: «Il Protocollo operativo è strutturato in maniera che i criteri di priorità siano inattaccabili: perché, per esempio, come si può pensare di sottovalutare i problemi strutturali degli edifici, in cima alla scala delle priorità, considerato che mettono a rischio l’incolumità dei loro abitanti?», spiega a Left, la portavoce di Alterego-Fabbrica dei diritti, Federica Borlizzi. Un lavoro mosso da buone intenzioni eviterebbe generalizzazioni che hanno l’inconfondibile rumore di un’arma repressiva. «Il Comune di Roma - continua Borlizzi - per capire quali sono le priorità deve necessariamente fare una distinzione tra baraccopoli (sulle quali pesano, anche, responsabilità ambientali) e occupazioni virtuose (sebbene abusive) che rappresentano, invece, esperienze di riqualificazione urbana». Perché se si fa di tutt’un’erba un fascio, si rischia la strumentalizzazione. «È il caso di via Carlo Felice, in cui abitano circa trentacinque nuclei familiari, soggetto a quel tipo di scala di priorità perché ritenuto in precarie condizioni di sicurezza. Non sappiamo sulla base di quale perizia le istituzioni siano giunte a tale conclusione e, a riguardo, vorremmo procedere a una richiesta di accesso agli atti della seduta del Comitato Provinciale dove è stato approvato l’elenco degli immobili da sottoporre a prioritario censimento, per consentirne un successivo sgombero». In verità, però, sorge il dubbio che l’occupazione di via Carlo Felice sia stata inserita in tale scala di priorità solo perché l’apertura della nuova metro C in quella zona comporta un evidente intento di ulteriore gentrificazione dell’area. Tralasciando che i contesti territoriali in cui sorgono queste strutture (altrimenti inutilizzate) sono tutti problematici e fanno i conti con la coesistenza di realtà sociali differenti. Ma tutte fragili. E poiché la categoria delle fragilità «così come declinata dalla giunta capitolina, si è rivelata escludente e inefficace - precisa Borlizzi - è necessario un superamento di tale categorizzazione visto che gli occupanti che si trovano a vivere in condizioni disumane, sono tutti, indistintamente, in una situazione di estrema vulnerabilità e precarietà e che la fragilità sociale non può non tenere conto, anche, della presenza di una fragilità economica». Due fattori che, se non adeguatamente considerati, rendono monca e fallace qualsiasi soluzione. E, pure, la conseguente presa in carico dei soggetti bisognosi. «Se pensiamo agli sgomberi di via Curtatone, le persone sgomberate sono finite nei centri di accoglienza istituzionali, con un termine di sei mesi, per poi finire di nuovo per strada», dice Federica Borlizzi. Invece, «la maggior parte degli sgomberati - spiega - non dovrebbe finire nei suddetti centri ma, piuttosto, dovrebbe poter usufruire di sistemazioni adeguate nei beni immobiliari pubblici e privati inutilizzati, compresi quelli confiscati alla criminalità organizzata». Per mappare i quali e, conseguentemente, offrire un’alternativa reale alle persone oggetto di sgombero, è stata istituita, presso il ministero dell’Interno, una Cabina di regia, dei cui lavori, a otto mesi di distanza, non se ne sa nulla. Intanto, dando seguito a quanto prescritto nella seduta del 22 gennaio scorso, il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza, su proposta di Prefettura e di Roma Capitale, ha approvato l’elenco degli immobili da sottoporre in via prioritaria a censimento, poiché caratterizzati da condizioni di accertate precarietà strutturali. Via Carlo Felice, 69; via Cardinal Capranica, 37; via Tiburtina, 1040; via dell’Impruneta, 51; via Raffaele Costi, in cui alloggiano circa centocinquanta persone, di cui trenta minori non scolarizzati, e via Collatina, 385, dove vivono cinquecento persone. E dove con modalità del tutto discutibili si effettueranno i colloqui «in modo continuativo per evitare interruzioni che potrebbero consentire un artificioso incremento del numero degli occupanti negli edifici, così da rendere inefficienti le soluzioni assistenziali predisposte». Quali?

Siccome il fenomeno delle occupazioni arbitrarie di edifici pubblici e privati, a Roma, ha raggiunto dimensioni allarmanti, il Comitato metropolitano per l’ordine e la sicurezza ha (silenziosamente) elaborato un “protocollo operativo per superare le criticità che rallentano o impediscono la conclusione delle operazioni di censimento degli occupanti”. Di fronte a novanta stabili occupati, di cui sessantaquattro con destinazione abitativa e ventisei destinati a centri sociali – cinquantatré di proprietà di enti pubblici e trentuno di privati – e per dare esecuzione alle indicazioni formulate dal ministero dell’Interno nella circolare del primo settembre del 2017, il Comune di Roma ha stabilito criteri e modalità con cui dovranno essere effettuati gli sgomberi.

Sulla carta, il Comitato metropolitano sembrerebbe mosso da buone intenzioni quando scrive che «il censimento degli occupanti (è) necessario perché l’esecuzione degli sgomberi avvenga considerando la difesa dei nuclei famigliari in condizioni di disagio economico e sociale». Ma specificando che il censimento «è uno dei fattori di criticità nella gestione delle occupazioni» per l’ostilità degli occupanti all’ingresso del personale dei servizi sociali di Roma Capitale, tradisce i migliori intenti, celando (e manco troppo) preoccupazioni relative alla sicurezza, al decoro urbano e all’ordine pubblico.

Il sospetto si fa certezza quando nel Protocollo operativo censimento occupanti abusivi di immobili si leggono i criteri di priorità che devono contemperare «il diritto alla tutela delle famiglie indigenti con la situazione di ordine e sicurezza pubblici, i possibili rischi per l’incolumità degli abitanti e la salute pubblica, derivanti dalla condizione degli edifici occupati, i diritti dei proprietari e le misure assistenziali» che le istituzioni devono assicurare. E se le finalità del censimento sembrerebbero trovare giustificazione «nell’individuazione di situazioni di fragilità», la realtà è che «deve ritenersi prioritaria, rispetto al diritto all’abitare, la tutela dell’incolumità fisica e della salute degli occupanti», si legge.

I toni di un editto si fanno forti e chiari per Alterego-Fabbrica dei diritti, associazione che, attraverso un formale accesso agli atti, è entrata in possesso del verbale della seduta del Comitato Metropolitano del 22 Gennaio 2018 e che quelle realtà le conosce profondamente: «Il Protocollo operativo è strutturato in maniera che i criteri di priorità siano inattaccabili: perché, per esempio, come si può pensare di sottovalutare i problemi strutturali degli edifici, in cima alla scala delle priorità, considerato che mettono a rischio l’incolumità dei loro abitanti?», spiega a Left, la portavoce di Alterego-Fabbrica dei diritti, Federica Borlizzi.

Un lavoro mosso da buone intenzioni eviterebbe generalizzazioni che hanno l’inconfondibile rumore di un’arma repressiva. «Il Comune di Roma – continua Borlizzi – per capire quali sono le priorità deve necessariamente fare una distinzione tra baraccopoli (sulle quali pesano, anche, responsabilità ambientali) e occupazioni virtuose (sebbene abusive) che rappresentano, invece, esperienze di riqualificazione urbana». Perché se si fa di tutt’un’erba un fascio, si rischia la strumentalizzazione. «È il caso di via Carlo Felice, in cui abitano circa trentacinque nuclei familiari, soggetto a quel tipo di scala di priorità perché ritenuto in precarie condizioni di sicurezza. Non sappiamo sulla base di quale perizia le istituzioni siano giunte a tale conclusione e, a riguardo, vorremmo procedere a una richiesta di accesso agli atti della seduta del Comitato Provinciale dove è stato approvato l’elenco degli immobili da sottoporre a prioritario censimento, per consentirne un successivo sgombero». In verità, però, sorge il dubbio che l’occupazione di via Carlo Felice sia stata inserita in tale scala di priorità solo perché l’apertura della nuova metro C in quella zona comporta un evidente intento di ulteriore gentrificazione dell’area.

Tralasciando che i contesti territoriali in cui sorgono queste strutture (altrimenti inutilizzate) sono tutti problematici e fanno i conti con la coesistenza di realtà sociali differenti. Ma tutte fragili. E poiché la categoria delle fragilità «così come declinata dalla giunta capitolina, si è rivelata escludente e inefficace – precisa Borlizzi – è necessario un superamento di tale categorizzazione visto che gli occupanti che si trovano a vivere in condizioni disumane, sono tutti, indistintamente, in una situazione di estrema vulnerabilità e precarietà e che la fragilità sociale non può non tenere conto, anche, della presenza di una fragilità economica». Due fattori che, se non adeguatamente considerati, rendono monca e fallace qualsiasi soluzione. E, pure, la conseguente presa in carico dei soggetti bisognosi.

«Se pensiamo agli sgomberi di via Curtatone, le persone sgomberate sono finite nei centri di accoglienza istituzionali, con un termine di sei mesi, per poi finire di nuovo per strada», dice Federica Borlizzi. Invece, «la maggior parte degli sgomberati – spiega – non dovrebbe finire nei suddetti centri ma, piuttosto, dovrebbe poter usufruire di sistemazioni adeguate nei beni immobiliari pubblici e privati inutilizzati, compresi quelli confiscati alla criminalità organizzata». Per mappare i quali e, conseguentemente, offrire un’alternativa reale alle persone oggetto di sgombero, è stata istituita, presso il ministero dell’Interno, una Cabina di regia, dei cui lavori, a otto mesi di distanza, non se ne sa nulla.

Intanto, dando seguito a quanto prescritto nella seduta del 22 gennaio scorso, il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza, su proposta di Prefettura e di Roma Capitale, ha approvato l’elenco degli immobili da sottoporre in via prioritaria a censimento, poiché caratterizzati da condizioni di accertate precarietà strutturali. Via Carlo Felice, 69; via Cardinal Capranica, 37; via Tiburtina, 1040; via dell’Impruneta, 51; via Raffaele Costi, in cui alloggiano circa centocinquanta persone, di cui trenta minori non scolarizzati, e via Collatina, 385, dove vivono cinquecento persone. E dove con modalità del tutto discutibili si effettueranno i colloqui «in modo continuativo per evitare interruzioni che potrebbero consentire un artificioso incremento del numero degli occupanti negli edifici, così da rendere inefficienti le soluzioni assistenziali predisposte». Quali?