È l’atto fondativo della Repubblica. Con il referendum istituzionale del 1946 c’è stata una grande prova di maturità politica e di resistenza morale, dopo venti anni di fascismo e la guerra. Per questo occorre ridare senso alla ricorrenza

Le feste laiche? Sono nostre. Riprendiamocele!
Voi che fate il 2 giugno?
In che senso?
È festa
Ah! Allora dipende
Da cosa?
Da come capita, da che giorno della settimana è.
Quest’anno sabato.
Peccato! Fosse stato venerdì si poteva andar fuori, al mare! Che tempo si prevede?
Buono!
Allora faremo un buon weekend.

Come è potuto accadere? Non si tratta solo che le persone, quelle che di solito incontriamo sui mezzi pubblici, quelle che si segnano quando si passa davanti a una chiesa o di cui devi ascoltare le insulsaggini mentre aspetti alle fermate, ignorino del tutto che il 2 giugno è la festa della Repubblica, che ne ricorda l’atto fondativo, che lo stesso popolo italiano ha decretato col proprio voto nel referendum istituzionale del 1946; il vero dramma è che non si senta in maniera diffusa e unitaria il desiderio di festeggiare la riconquistata libertà. Non voglio muovere accuse di scarso patriottismo, non mi appartiene, osservo solo l’accettazione fredda di una festa del tutto svuotata di senso, snaturata dai soliti rituali ufficiali: parate militari, evoluzioni di frecce tricolori alla presenza delle massime autorità dello Stato. Una Repubblica nata dalla Resistenza, fondata su una Costituzione che “ripudia” la guerra noi la festeggiamo mostrando i muscoli? E non con i fuochi pirotecnici, i balli in piazza e i pranzi collettivi come fanno gli americani il 4 luglio e i francesi il 14?

Non voglio riaprire diatribe che investono le nostre feste civili da 70 anni, tali da indurre alcuni governi a eliminarle e altri di colore diverso a reinserirle o i tentativi costanti di tutte le destre di cancellare il 25 aprile, che ci ricorda la vittoria sul nazifascismo e che è diventata la festa intestata all’Anpi così come il primo maggio è appannaggio dei sindacati, ma mi piacerebbe capire perché il 2 giugno noi non lo sentiamo come la festa della libertà e della democrazia. Ma come sono andate le cose al momento della nascita della Repubblica? Dopo una guerra anche civile, in cui gli italiani si sono venuti a trovare su due fronti contrapposti, l’un contro l’altro armati, barricata mai più stata abbattuta?

La nascita di una nazione è importante per il suo sviluppo successivo come quella di un bambino. Il 2 giugno 1946 è nata la Repubblica italiana, “in sordina, senza gesti giacobini, senza rappresaglie e senza comitati di salute pubblica: Repubblica in prosa e a lumi spenti”, così Calamandrei; gli italiani hanno dato “scacco al re”in modo civile e composto: una grande prova di maturità politica e di resistenza morale, dopo 20 anni di fascismo e 3 di guerra; la penisola trasformata in un enorme campo di battaglia in cui tutta la popolazione viene coinvolta, con sofferenze e patimenti, mai prima d’ora conosciuti. Una situazione che ha messo a rischio la stessa unità nazionale. Unità che la Resistenza riesce a ricomporre solo in parte, maggiormente dove spira il “vento del nord”, mentre il “regno del Sud”, liberato dagli alleati vede il riorganizzarsi dei tradizionali gruppi dominanti, fermi al potere con il beneplacito degli alleati. Un’Italia divisa geograficamente, che rischia di sfasciarsi insieme alla sconfitta della guerra fascista e che dal giugno del ’45 è guidata da un uomo integerrimo: Ferruccio Parri, messo però nella più assoluta impossibilità di agire dal ferreo controllo alleato, responsabile in primis della mancata epurazione delle più alte sfere dello Stato e della burocrazia. Per i partiti antifascisti una reale possibilità di rinnovamento è la Costituente e la vittoria della Repubblica al Referendum istituzionale.

Anche i cattolici votano per la Repubblica, ma ben 6 degli 8 milioni di voti democristiani vanno alla monarchia; certo l’atteggiamento di De Gasperi non è adamantino, da politico avveduto lascia libertà di coscienza al proprio elettorato, ben consapevole che se la Chiesa non prende una posizione pubblica netta, è però filomonarchica tanto da ritardare il rientro in Italia di don Sturzo, sincero repubblicano. La Dc è inoltre una convinta sostenitrice del voto alle donne, in quanto le reputa maggiormente influenzabili dalla Chiesa. La monarchia sabauda, anche in questo frangente, gioca sporco, ben salda sul trono, cerca di rimandare la prova elettorale per riconquistare consenso, ben sostenuta dai partiti di destra: liberali, monarchici e fascisti, che rifanno capolino e in seguito ingrossano le fila de L’uomo qualunque di Giannini

Noi siamo nati così: luci ed ombre, ma gli Usa e la Francia?

Gli Usa sorgono da un crogiuolo di lingue, culture, storie e religioni diverse, provenienti da tutta Europa e a predominanza inglese; una miscela da cui emerge una società con caratteristiche originali. Una società che cancella con un genocidio di massa i nativi. Le colonie fino a metà ’700 non pensano all’indipendenza dall’impero Britannico, orgogliose di farne parte, sono le leggi sul bollo del 1775 ad accendere la miccia e a generare, da una protesta, una ribellione che si trasformerà in guerra di liberazione. Il 2 luglio del 1776 il Congresso approva la Dichiarazione di indipendenza, stilata da T. Jefferson, B. Franklin e J. Adams: atto di nascita della nazione.
John Adams scrive alla moglie Abigail: «Il secondo giorno di luglio del 1776 sarà l’evento più memorabile della storia dell’America. Sono portato a credere che sarà celebrato dalle generazioni future come una grande festa commemorativa. Dovrebbe essere celebrato come il giorno della liberazione, attraverso solenni atti di devozione a Dio Onnipotente. Dovrebbe essere festeggiato con pompe e parate, con spettacoli, giochi, sport, spari, campane, falò ed illuminazioni, da un’estremità di questo continente all’altra, oggi e per sempre»

In seguito si scelse di festeggiare il 4 luglio, il giorno in cui la Dichiarazione di indipendenza è resa pubblica, per il resto i festeggiamenti seguono le indicazioni di Adams, parole in cui leggiamo l’orgoglio di un popolo che ha combattuto all’unisono e diventa nazione (e pluribus unum) e sceglie come proprio emblema l’aquila dalla testa bianca. Simbolo di potenza già nell’impero romano. Aquila inserita in uno scudo araldico con le ali aperte e la bandiera a stelle strisce sul corpo; essa stringe nell’artiglio destro un ramoscello d’ulivo, ad indicare l’amore per la pace e in quello sinistro 13 frecce, insomma sempre pronta a far la guerra! L’occhio acutissimo dell’aquila ci mette in relazione con quello di dio rappresentato sul retro. Insomma una nazione che si fonda sulla religiosità, che si riconosce nelle proprie feste e nei propri simboli, ma che è piena di contraddizioni.

Solo qualche anno dopo anche la Francia, al culmine della sua gloriosa rivoluzione e di una lotta tutta interna, sconfigge l’ancien régime con la presa della Bastiglia e sceglierà in seguito questa data come fondativa della nazione; fu Benjamin Raspail nel 1880 a proporre al parlamento francese l’istituzione di questa festa. Agli anni 30 dell’800 risale invece il dipinto di Delacroix, della Marianne, splendida donna con le tette al vento; che guida il popolo alla lotta contro il reazionario Carlo X e che rappresenta la Rivoluzione e con essa anche la libertà, l’uguaglianza e la fratellanza, valori per i quali è necessario lottare. La Marianne dell’89 era una giovane donna che indossava il berretto frigio, simbolo esso stesso della libertà poiché in epoca romana viene portato dagli schiavi che si sono liberati.

Una Marianne che rimane unica rappresentazione della Rivoluzione al di là delle numerose fazioni che hanno bisogno tutte del favore popolare, che questa immagine femminile incarna, e che nessuno pensò mai di modificare, solo in tempi più vicini a noi è stata notevolmente cambiata: ben vestita e più composta dal momento che deve incarnare i valori di una borghesia non più rivoluzionaria ma che ha conquistato potere politico e economico. Si è chiesto, in seguito, alle attrici francesi più in voga di impersonarla: da Brigitte Bardot a Catherine Deneuve, da Laetitia Casta a Sophie Marceau. Così la Marianne continua a evolversi e a vivere nel popolo francese. Le sue tette però vengono spesso prese di mira come ha fatto di recente il sindaco di Neuville-en-Ferrain, che non sopportando la vista di un seno nudo nonché troppo prosperoso di una scultura che troneggiava all’interno del municipio, l’ha fatta rimuovere e sostituire con una più morigerata, tra le proteste dei suoi concittadini; insomma un’immagine troppo seducente e che va censurata. E noi? (invidia a parte per le belle tette della Marianne) come siamo messi?

Il profilo severo di donna turrita, inserito nella scheda del referendum sulla forma istituzionale dello Stato dai fautori della Repubblica, è un’immagine classica che trae origine dall’antica Roma e verrà riproposta nei francobolli, nella serie cosiddetta Siracusana. Un simbolo astratto non paragonabile in nessun modo alla Marianne; indice di tempi severi. Ma se questa è l’unica immagine che riescono a proporre i partiti che portano avanti la battaglia per la Repubblica, mi riferisco a tutta la sinistra, che lo fa senza l’ambiguità e la doppiezza della Dc di De Gasperi, casa Savoia ripropone lo stemma monarchico. Una monarchia che ricorre al ridicolo del re di maggio, ultima carta da giocare visto che ormai non si può più rimandare, mentre avrebbero dovuto, con dignità allontanarsi dall’Italia, che hanno loro sì portato nel baratro del fascismo, della guerra e della distruzione, non solo non fanno alcun passo indietro, ma con il supporto delle gerarchie cattoliche, conducono una campagna referendaria serrata, accusando poi i fautori della Repubblica di “brogli”elettorali!

Di fronte a immagini così scarse ci viene da pensare che poi la Repubblica si sia presa la sua rivincita e si sia scelta un’immagine di donna giovane e bella che ne è diventata la rappresentazione. Mi riferisco alla giovane donna sorridente che alza sulla propria testa la prima pagina del Corriere della Sera in cui campeggia la scritta “è nata la Repubblica italiana” pubblicata dal settimanale Il Tempo il giorno della proclamazione della Repubblica. Una foto scattata da Federico Patellani. L’aver ignorato per 70 anni l’identità di questa donna ha certamente reso più facile farla diventare l’immagine di tutte le donne e delle loro lotte; ma ora, grazie ad un “crowdsourcing intorno a un sorriso”, quel bellissimo volto ha un nome e un cognome: Anna Iberti, che all’epoca aveva 24 anni e lavorava all’Avanti. Una storia tutta all’interno del giornalismo italiano dunque, una storia che porta il volto di una donna orgogliosa di esserne l’interprete, un volto e un sorriso che ci fanno sperare ancora che una nuova alba da qualche parte ci sia. Ci dovrà essere.

Buona festa della Repubblica!

L’articolo di Rita De Petra è tratto da Left in edicola


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