Nel suo nuovo romanzo lo scrittore iraniano Kader Abdolah racconta la “magia” della migrazione e la nuova identità del Vecchio continente che nasce dall’incontro fra Oriente e Occidente

È un viaggio nella storia ma anche nel presente dell’Europa vista da un inedito e illuminante punto di vista orientale il nuovo romanzo di Kader Abdolah, Uno scià alla corte d’Europa edito da Iperborea.
Due secoli fa, come negli anni Duemila, il vecchio continente era ad un punto di svolta e stava sviluppando una nuova identità. Oggi grazie all’incontro con i migranti che arrivano da Paesi lontani. Allora grazie a conquiste del sapere, della scienza e della tecnica. Nel XIX secolo l’Europa conobbe un vero e proprio salto di paradigma, proiettandosi verso un futuro di modernizzazione di cui lo scià protagonista di questo nuovo romanzo di Kader Abdolah rimase affascinato.

“Re bambino” costretto a diventare tiranno per imposizione di un sistema di potere basato sulla stirpe e sul sangue, lo scià (Nassereddin Shah Qajar era il suo vero nome) durante il suo Grand tour osservò, curioso e sbalordito, il prodigio di treni a vapore, futuri telefoni e polverine “magiche” come l’aspirina. E se, come racconta Kader Addolah, mescolando sapientemente storia e fantasia, la vista di quel progresso gli dette l’immediata misura della propria inadeguatezza (facendolo d’un tratto vergognare dell’harem, dello stuolo di servitori a seguito e della carovana di tappeti e antiche spade) l’incontro con Bismarck, con la regina Vittoria e con i nuovi padroni dell’industria bellica e dello sfruttamento dei lavoratori gli resero subito chiaro l’alto prezzo umano da pagare.

Di questo lo scià scrisse nel suo diario. Kader Abdolah lo immagina alle prese con penna e calamaio mentre la sua preferita Banu, moderna Shahrazād, gli legge romanzi di Tolstoj, di Gončarov e di altri grandi scrittori che in sorprendenti pagine di Uno scià alla corte d’Europa riuscirà perfino ad incontrare. In Russia, lo scià incontrerà anche lo zar Nicola II, come lui destinato a morire fucilato. Due dittatori ignari del proprio destino e prossimi ad essere cancellati dalla storia; l’uno nel 1919 a San Pietroburgo per mano dei bolscevichi, l’altro a Teheran nel 1896 per mano di terroristi nihilisti. Attraverso le parole del narratore e suo alter ego, l’orientalista dell’università di Amsterdam Seyed Jamal, Kader Abdolah, che da giovane fu perseguitato dal regime dello scià e da quello dell’ayatollah, aggiunge qui una toccante nota autobiografica: «Mentre frequentavo l’università entrai a far parte di un movimento di sinistra», fa dire a Seyed.«Parlavamo di Nicola II e giustificavamo il suo assassinio come un atto storicamente necessario compiuto dai bolscevichi. Non provavamo alcun sentimento, trattavamo la questione come la pagina di un vecchio libro di storia». Ma poi Seyed aggiunge: «Quando ad anni distanza lessi della principessa Dagmar e di Banu nei diari dello scià mi commossi. Non le vedevo più come foto in bianco e nero ingiallite dal tempo, ma come persone con paure e sogni».

Ed è questa umanizzazione della storia uno degli aspetti più seducenti di Uno scià alla corte d’Europa, che rileggendone il senso più profondo, non fa sconti a nessuno, né alla paranoia su cui si regge il potere dello scià che vede traditori ovunque, né al disumano e lucido positivismo capitalista su cui si regge il potere in Occidente. Ma il bello è che non si tratta di un romanzo a tesi. Kader Abdolah ci porta nel castello dei destini incrociati della storia e soprattutto ci fa conoscere la magia dell’incontro con l’altro, con il diverso da sé, che apre la porta di una possibile trasformazione, in noi stessi e nella società. Lo fa con semplicità narrando la vicenda di un immaginario Seyed Jamal, emigrato dalla Siria in Olanda, dove si è costruito una nuova vita, insegnando all’università. Un giorno ritrova per caso il diario di viaggio dello scià Nadir e, mettendosi sulle sue tracce narra la storia d’Europa da un punto di vista nuovo, ricreando in maniera poetica e immaginifica le Lettere persiane (1721) di Montesquieu.

Kader Abdolah

Incontrando Kader Abdolah al Salone del libro di Torino e in vista della sua partecipazione, il primo giugno, a La grande invasione ad Ivrea, non potevamo che partire da questo suo personaggio che molto gli assomiglia. Come lui orientale, come lui ex giovane rivoluzionario, come lui si è inventato una nuova identità di scrittore e studioso lontano dal suo Paese di origine.

«In un certo senso sì, mi sono nascosto dietro di lui, gli ho dato molte parti di me, forse Seyed sono io con una maschera», dice Kader Abdolah con sguardi e modi da seducente narratore di fiabe. «Che cosa mi ha permesso di tenere insieme il piano della storia, la letteratura e l’attualità? La mia gelosia!», risponde ridendo. «Ero geloso dell’impresa di questo scià che, nell’Ottocento, è riuscito a viaggiare per sei mesi attraverso l’Europa, in un periodo così importante, quando non c’era ancora la luce, non c’erano i computer. In un momento in cui l’Europa era impegnata a costruire una identità nuova, per se stessa. Erano gli albori di un nuovo continente, potente, pieno di energia. Quando ho letto il libro dello scia – confessa Kader Abdolah – ho capito che lui aveva visto molte cose, ma non era riuscito a vederle realmente. Le aveva viste con gli occhi ma non è riuscito a comprenderle davvero. Ha intravisto novità storiche come l’aspirina, ha orecchiato qualcosa al telefono, ma non ne ha afferrato la portata. Allora mi sono detto: io farò lo stesso viaggio. Ma io so cosa è la luce, cosa è un’aspirina, e ne farò un romanzo per me stesso».

Lo scià subisce uno shock culturale venendo in Europa, ma allo stesso tempo è come un’illuminazione, vede più profondamente se stesso. L’incontro fra due culture così diverse può essere fonte di conoscenza invece che di scontro culturale?

Mi piace il personaggio del re in questo romanzo perché, come me, viene dalla cultura orientale, approda alla cultura occidentale, e cerca di scrivere in modo libero. Io ho fatto lo stesso. Sono venuto dall’Iran. Lui era un dittatore. Io vengo da una dittatura. Lui cercava di incontrare delle persone per scrivere. Io faccio lo stesso. Sono arrivato qua, ho cambiato lingua di scrittura per poterci incontrare, per incontrare le persone e l’Europa, per avere la possibilità di scrivere le mie storie, come volevo.

Viaggiando, lo scià si rende conto di essere un re da niente ma capisce il potere che ha la scrittura.

Sì lui era un re, ma non voleva esserlo. Da piccolo era stato costretto a diventarlo. Di fronte alle pressioni straniere, dell’Inghilterra, della Russia, di fronte alle pressioni dell’entourage divenne dittatore, ma lui voleva stare solo per scrivere. Ma non sapeva cosa avrebbe scritto. Disse a se stesso: non sono un grande re, non lo sarò mai. C’è un solo modo per diventare una grande persona, fare un lungo viaggio per scrivere. Così ha scritto centinaia di pagine su quell’esperienza. Nella storia persiana lui è un re da nulla, ma è ricordato come piacevole scrittore.

Durante quel viaggio molti pregiudizi e illusioni vengono a cadere. Per esempio le donne occidentali non erano così libere come le apparenze potevano far pensare?

Lo scià viaggiava con molte donne dell’harem, che non avevano nessuna libertà. Ma scopre che anche le mogli dei re occidentali avevano le stesse limitazioni, vivano chiuse nei castelli. Tuttavia il momento in cui lui giunge in Europa è un momento cruciale, in cui l’Europa sta conquistando un nuovo volto: libertà delle donne, libertà nella modernizzazione. Lui vede tutto questo, ma non lo comprende sul momento, tutto ciò che sta accadendo è estremamente nuovo.

Rispetto al progresso dell’Europa la sua cultura sembra arretrata, ma è ricca di immaginazione, di narrazioni fiabesche, di interpreti di sogni. Lo scià viene da una cultura che a differenza di quella positivista occidentale non svaluta la dimensione interiore. Cosa ne pensa?

Lo scià viene da un Paese molto ricco dal punto di vista culturale, il Paese delle mille e una notte, dei tappeti volanti, di Alì Babà e i 40 ladroni, conosce il potere della narrazione e fa di quel viaggio qualcosa che supera la realtà. Rende romanzesca l’Europa, la ricrea in un racconto fantastico. Anche io ho trasformato la mia esperienza dell’Europa in letteratura. Lui l’ha fatto a suo modo. Ha tradotto l’Europa in un libro, perché aveva bisogno di raccontare per essere libero. Io ho fatto lo stesso, ho creato una nuova narrazione europea e in questo modo l’Europa è diventata la mia Europa.

In questo libro ci sono pagine molto belle e toccanti sui migranti. Come scrive Sayed in un tweet: «I migranti hanno molto coraggio, hanno fantasia, vanno incontro al futuro». Invece la cronaca ne parla solo in termini negativi, paventando pericoli ed emergenza. La letteratura ha il compito oggi di offrirne un diverso racconto?

Negli ultimi 25 anni sono arrivati 30 milioni di migranti in Europa, via mare, via terra, in volo. Fin qui solo la tv e i giornali hanno parlato di migranti. La cronaca è superficiale e ignora le loro storie. Quelle persone sono venute qui in cerca di cambiamento, hanno cominciato una nuova vita olandese, tedesca, italiana, francese, svedese. Hanno cambiato se stessi e stanno cambiando l’Europa. Ma nessuno parla di queste cose. Solo la letteratura è in grado di mostrare tutto ciò. è un dovere oggi per uno scrittore raccontarli in modo diverso. I media dicono che sono persone povere, pericolose, buone, cattive ecc, ma uno scrittore porta il lettore nell’animo del migrante. In questo momento quella persona è un immigrato, ma fra 50 o 60 anni sarà un olandese, un’italiana ecc. Io racconto questa trasformazione.

In Olanda i liberali di destra vogliono chiudere le frontiere. Ma in questo libro lei racconta anche di giovani studenti siriani applauditi al loro ingresso in aula da compagni di università. Queste due realtà convivono?

Queste realtà esistono in tutti i Paesi. In Germania c’è chi grida ai migranti di andarsene e ci sono quelli che portano cibo, indumenti, che vanno a incontrarli. Entrambi questi aspetti coesistono, così va la società, che per crescere ha bisogno di confronto, di dialettica, di rapporti, per creare qualcosa di nuovo

Lei è dovuto fuggire dall’Iran di Khomeini, molti suoi amici e conoscenti sono stati incarcerati, torturati, uccisi. Oggi cosa pensa di ciò che sta succedendo e delle minacce di Trump?

È uno scenario molto triste. Io odio il regime iraniano, mi sono sempre opposto agli Āyatollāh. Ma con le sanzioni Trump sta punendo il popolo iraniano. È uno schiaffo in faccia all’Iran ma – ecco il fatto nuovo – è anche uno schiaffo all’Europa. Trump dice: Italia se tu vendi qualcosa all’Iran ti punisco. Dice lo stesso alla Francia. È per

icoloso. l’Europa deve fare qualcosa. È un momento delicato nei rapporti fra Europa e America. La vicenda che riguarda i rapporti Usa-Iran è nota. Ma si sta d

elineando una nuova situazione fra l’America e il Vecchio continente. Io vedo Trump come un dittatore che prova a imporre all’Europa cosa fare, si comporta come gli ayatollah. Io vedo in Trump un ayatollah che vuole imporsi a livello internazionale.

In Siria si sta combattendo una guerra per procura, molti Paesi 

intervengono nel conflitto e chi continua a farne le spese è la popolazione civile.

La guerra potrebbe finire ma Trump non l’accetta e fa il gioco sporco.

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(traduzione di Francesco Troccoli)

 

L’intervista di Simona Maggiorelli allo scrittore iraniano Kader Abdolah è stata pubblicata su Left del 1 giugno 2018


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