Colpevoli di aver denunciato i suicidi in Fiat e i sei anni di Cigs con soldi pubblici, colpevoli di aver smascherato il reparto fantasma di Nola. Per questo sono colpevoli e sono stati licenziati e la Cassazione ne ha annullato il reintegro.

Non metteranno più piede in fabbrica i cinque licenziati dalla Fca di Pomigliano. Agli “ermellini”, di questi tempi, non devono andare a genio le tute blu “irriguardose” nei confronti dei padroni, nemmeno se il contegno di questi ultimi è causa di suicidi e del disagio profondissimo dei lavoratori, emarginati nei reparti confino, mortificati dalla cassa integrazione, brutalizzati dalla metrica della catena di montaggio. La «macabra rappresentazione scenica», secondo i giudici della suprema corte, ha travalicato i limiti della dialettica sindacale. A tanto arriva l'”obbligo di fedeltà”. Per questo la Cassazione ha annullato il reintegro di Mimmo Mignano, Marco Cusano, Antonio Montella, Massimo Napolitano e Roberto Fabbricatore, operai dello stabilimento Fca Fiat di Pomigliano d’Arco (Napoli), accogliendo il ricorso dell’azienda contro la decisione della Corte d’Appello di Napoli che a settembre del 2016 aveva invece disposto il rientro in fabbrica e il pagamento di 12 mensilità arretrate (la legge Fornero è anche questo: il licenziamento è dichiarato illegittimo ma a fronte di più di due anni di salario la Fiat dovrà risarcire solo un anno). I cinque operai erano stati licenziati dalla Fiat nel 2014. Sono tutti aderenti al SiCobas e, in quanto tali deportati dal management Fiat nel polo logistico di Nola assieme a parecchi iscritti Fiom, tutti i lavoratori con ridotte capacità lavorative e quelli con un contenzioso aperto con l’azienda.

«Il fantoccio-Marchionne rappresentava il quarto operaio suicidatosi dopo che tre operai si erano tolti la vita (per davvero) per le assurde condizioni di vita vissute a Nola. L’ultima tra questi Maria B. , 47 anni, morta nel suo appartamento ad Acerra accoltellandosi all’addome a morte. Aveva scritto un articolo dal titolo “Suicidi in Fiat” dove accusava Fiat e l’amministratore delegato, Sergio Marchionne, di “fare profitti letteralmente sulla pelle dei lavoratori che sono costretti ormai da anni alla miseria di una cassa integrazione senza fine ed a un futuro di disoccupazione”, aggiungendo che “‘Non si può continuare a vivere per anni sul ciglio del burrone dei licenziamenti”», ricorda Francesca Fornario che ha seguito il loro braccio di ferro asimmetrico con l’azienda che ha portato la cassaforte a Londra e paga le tasse in Olanda. Ma sfrutta senza limiti il bisogno di lavorare a differenti latitudini. Azienda italo-statunitense di diritto olandese, si legge sul web a proposito della risultante della fusione Fiat-Chrisler, è il settimo gruppo automobilistico mondiale.

Con un nodo alla gola, quel giorno di settembre di due anni fa, Antonio Montella, 57 anni metà passati in Fiat, dedicava la notizia a chi non c’è più, ai colleghi che si sono tolti la vita. Disse al cronista di Left che si sentiva, con i suoi compagni, come Davide quando ha battuto Golia. «Immagina un capannone – raccontò Montella – come una piazza ma coperta. Vuota, mille metri quadrati per 150 operai ad ogni turno. E che non hanno nulla da fare. Come centocinquanta detenuti in un’ora d’aria moltiplicata per otto, qua e là a chiacchierare in piccoli gruppi. Ecco cos’è un reparto confino. Ogni tanto arrivavano le “cassette”, pezzi fuori misura per passare sulla linea di montaggio, che noi dovevamo sistemare in una sorta di scaffale a rotelle da affiancare alla catena per eliminare i tempi morti, sveltire il lavoro». Doveva essere un grandissimo polo, così aveva giurato la Fiat, ma è durato pochi mesi. Poi per Antonio e altri 315 deportati da Pomigliano è stata solo la fabbrica della disperazione, tutti in cassa integrazione dal 2008, mai o quasi mai richiamati al lavoro. L’hangar sta a Nola, si chiama World class logistic (Wcl). Il tribunale di Nola non ci ha trovato nulla di discriminatorio ma, solo nel 2014, nel giro di pochi mesi, si sono suicidati tre lavoratori e altrettanti hanno tentato di farlo. «Non si può continuare a vivere per anni sul ciglio del burrone dei licenziamenti», scriveva nel 2011, dopo i primi suicidi, Maria Baratto, operaia che tre anni dopo si è tolta la vita nella sua casa di Acerra. Era la fine di maggio. Quaranta giorni prima s’era ucciso Peppe De Crescenzo, suo compagno di lotte, da 7 anni licenziato arbitrariamente ed ancora in attesa della causa rimandata alle calende greche dai giudici del lavoro di Nola.

Ieri, invece, la sentenza ha rischiato di avere un epilogo drammatico quando uno dei cinque lavoratori, Mimmo Mignano, si è incatenato davanti alla casa della famiglia del vicepremier Luigi Di Maio a Pomigliano d’Arco, e in una forma di protesta eclatante ed estrema si è cosparso il capo di benzina. In serata Di Maio lo è andato trovare: «Mimmo – spiega – è un mio concittadino che ha perso il lavoro e che oggi ha fatto un gesto disperato. Gli dico che lo Stato c’è». Bloccato dalla forze dell’ordine che lo hanno soccorso, l’uomo è stato portato in ospedale con forte bruciore agli occhi. Chiede l’intervento del neo ministro del Lavoro, che tra l’altro oggi sarà nella sua città per un appuntamento già programmato e potrebbe incontrare gli operai licenziati.

Il nome dei cinque è stato noto a milioni di italiani sono quando sono stati scritti sul bavero dei componenti de Lo Stato Sociale al Festival di Sanremo. Prima e dopo il reintegro, per due anni, la loro lotta è vissuta nella solitudine alla quale è condannata ogni vertenza in questi anni di frammentazione della classe. Gli operai sono stati tenuti fuori dall’azienda, benché a salario pieno: «una vita in vacanza» forzata, come ha cantato la band bolognese sul palco del Teatro Ariston. A giugno del 2014 Maria si era suicidata e dopo una quindicina di giorni un altro operaio suicida aveva lasciato una lettera in cui riconduceva le ragioni della sua scelta alla precarietà lavorativa. I cinque, ritenendolo responsabile, avevano inscenato con un manichino il suicidio di Marchionne pentito davanti al polo logistico di Nola con tute macchiate di sangue, distribuendo un finto testamento dell’ad. Una protesta simile si era ripetuta il 10 giugno davanti ai cancelli dello stabilimento di Pomigliano con il funerale di Marchionne-fantoccio. Le principali sigle sindacali si erano dissociate. Una decina di giorni dopo l’azienda aveva disposto il licenziamento, confermato un anno più tardi dal Tribunale di Nola. La Corte d’appello di Napoli, invece, nel 2016 aveva disposto il reintegro, ritenendo legittimo, per quanto aspro, «l’esercizio del diritto di critica» tramite «una rappresentazione sarcastica priva di violenza». Secondo la Cassazione, però, neppure la satira «può esorbitare la continenza» con l’attribuzione di qualità «disonorevoli», «riferimenti volgari» e «infamanti». «Le modalità espressive della critica manifestata dai lavoratori – scrive la sezione lavoro della Suprema Corte – hanno travalicato i limiti di rispetto della democratica convivenza civile», con «un comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro». Ricorda che la libertà dell’attività sindacale non può travalicare i limiti del cosiddetto «minimo etico». E ravvisando un errore di diritto nella decisione d’appello, ha deciso nel merito la causa confermando i licenziamenti.

Un appello di solidarietà ai 5 è stato firmato, due anni fa, da migliaia di persone grazie tra cui Alessandro Arienzo, Daniela Padoan, Guido Viale, Moni Ovadia, Erri De Luca, Ascanio Celestini, Francesca Fornario, Valeria Parrella, Annamaria Rivera. Stupisce l’assenza delle firme di Landini che pure su Pomigliano ha costruito gran parte della sua immagine di lottatore. Proprio ieri la Fiom ha incontrato, a Roma, la direzione aziendale di Fca. Nella delegazione, Michele De Palma, segretario nazionale Fiom, Rosario Rappa, segretario generale Fiom Napoli, Francesco Percuoco Fiom Napoli e i delegati, per affrontare i problemi derivanti dalla scadenza degli ammortizzatori sociali. La nota congiunta Fiom Cgil nazionale e Fiom Napoli spiega che l’eventuale intesa sulla cigs per riorganizzazione dovrebbe essere finalizzata alla piena occupazione e che è stato chiesto che «fossero specificati gli investimenti sullo stabilimento e i tempi di realizzazione per la messa in produzione dei nuovi modelli che insieme al mantenimento della produzione della Panda possono assicurare e realizzare la definitiva rioccupazione di tutti i lavoratori di Pomigliano d’Arco e Nola». La Fiom ha chiesto che nella modifica della bozza fossero inseriti i criteri che garantiscono una gestione della Cigs con le stesse modalità applicate con il Contratto di solidarietà in modo da assicurare una corretta ed equa rotazione tra i lavoratori. Ci sarà una assemblea retribuita nella giornata di venerdì 8 giugno per informare e coinvolgere i lavoratori di Pomigliano d’Arco e Nola, sul proseguo del confronto con il Ministero del Lavoro. Non risultano prese di posizione sulla clamorosa sentenza.