Un reportage nel ghetto di San Ferdinando nella piana di Gioia Tauro. È qui che sono costretti a vivere migliaia di braccianti stranieri che per un euro a cassetta e 12 ore di lavoro nei campi, senza contratto e tutele, fanno sì che ogni giorno frutta e verdura arrivino sulle nostre tavole

Sopra l’accampamento, le nuvole nere del temporale si addensano. La testa di Abu fa capolino da dietro i risvolti della tenda e l’aria puzza di benzina e spazzatura bruciata. Il cielo grigio è il segno che il bracciante ha perso ancora una volta la sua battaglia contro la natura. «La pioggia rovinerà il raccolto e non ci sarà più lavoro», dice Abu a fil di voce. Non mangia da due giorni e i soldi che gli rimangono in tasca non bastano neanche per un biglietto dell’autobus. «È vita questa?» si domanda. Ma le nuvole rimangono silenziose.

Uno dopo l’altro, i lavoratori di San Ferdinando escono dalle loro tende, sperando di avere male interpretato i segni del cielo. Ma la stagione delle piogge sta arrivando e il ghetto che hanno raggiunto per scappare alla povertà darà loro solo miseria e carestia. Più di tremila braccianti vivono in capanne del colore del terreno nella tendopoli di San Ferdinando, un bacino fangoso tra una zona industriale abbandonata e il porto di Gioia Tauro.

Abu, un lavoratore maliano, è arrivato qui mesi fa con pochi vestiti raccolti in sacchetto della spesa, avendo usato tutto quello che possedeva per riuscire ad arrivare nel ghetto. Ha trovato rifugio insieme ad altri connazionali in una piccola baracca costruita con pezzi di metallo e cartone, ormai diventato poltiglia per le frequenti piogge. Dentro, e sotto i rami secchi che fungono da tetto, non ci sono letti e le mosche ronzano attorno ad un tappeto incrostato che Abu usa come coperta. «Abbiamo provato a portare dei materassi, ma i topi ci scavano dentro le loro tane», sostiene il ragazzo mentre piega le sue uniche due magliette, come a poter dare un senso di dignità e decenza in questa sporcizia.

Con la raccolta degli agrumi già finita, Abu è rimasto senza soldi in questo imbuto geografico e cammina senza sosta attorno alla tendopoli con gli occhi vuoti di chi sa di essere senza lavoro e senza casa. Qui non c’è acqua né elettricità e i lavoratori lavano i panni nelle pozzanghere senza sapone. «Alcuni braccianti chiamano questo posto “casa”. Io non ci riesco perché mi ricordo cosa vuol dire avere una casa», dice Abu. «Non siamo i benvenuti qua, l’abbiamo capito. E ogni giorno minacciano di buttare giù tutto, di deportarci in massa, ma che dobbiamo fare? Dov’è che dobbiamo andare? Come potete pensare che dobbiamo raccogliere i vostri mandarini e poi sparire nel nulla?».

La natura dell’agricoltura calabrese richiede l’esistenza di questi migranti, ma i braccianti che sfamano le bocche dell’Italia sono condannati, senza risorse e documenti, ad una sorta di sub-umanità. Mentre Abu scava una buca davanti alla propria tenda per evitare che l’imminente temporale l’allaghi, dalla baracca a fianco ne esce una ragazza bellissima e zoppicante. Si chiama…

Il reportage di Massimo Paradiso prosegue su Left in edicola


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