Se dovessero finalmente rivedersi, forse non si riconoscerebbero. Dall'ultima volta che si sono incontrati, è passato più di mezzo secolo. Per almeno 300mila persone, l'incontro del 12 giugno a Singapore tra il leader nordcoreano Kim Jong-un e il presidente Usa, Donald Trump, non è un evento geopolitico, ma una questione privata. Per loro c'è qualcosa di più importante della de-nuclearizzazione della Corea, delle sanzioni e delle dichiarazioni sulle misure da adottare per migliorare le relazioni tra Seul e Pyongyang: si tratta delle loro famiglie. Per migliaia di coreani questo primo summit è l'ultima speranza di rivedere sorelle e fratelli da tempo perduti.
Se Kim e Donald si stringeranno la mano, loro, forse, dopo decenni la stringeranno ai loro cari, mai più rivisti dalla fine del conflitto tra Seul e Pyongyang nel 1953. Un Paese diviso vuol dire prima di tutto famiglie separate per sempre. Secondo il Dfusa, National coalition for the divided families, ci sono quattro tipi di “famiglie coreane divise”: le prime sono state separate dopo la Seconda guerra mondiale, altre hanno perso i contatti durante la Guerra di Corea, altre ancora hanno familiari tra i Pow, prisoners of war. Il quarto gruppo invece ha famiglia tra chi è stato deportato con la forza in Nord Corea durante il conflitto.
Sono almeno 300mila i cittadini americani di discendenza coreana, che hanno familiari residenti ancora a nord del 38esimo parallelo. Contatti diplomatici lenti e goffi, burocrazia ingolfata, escalation della tensione militare: almeno 20 programmi di riunione sono falliti finora. I confini sono anche temporali e generazionali, non solo geografici. Molti sopravvissuti di quegli anni di guerra sono ormai morti. Ma altri, quelli ancora vivi, sono anziani che non possono più aspettare e sperano: l'incontro tra i leader per loro è una risposta immediata che riguarda le loro origini più che i poligoni del 38esimo parallelo. Per Paul Kyumin Lee, dell'Asia program del Carnegie Endowment for International Peace di Washington, “il summit di Singapore è la migliore e ultima possibilità per rendere le “reunions”, le riunioni familiari, realtà.
Se dovessero finalmente rivedersi, forse non si riconoscerebbero. Dall’ultima volta che si sono incontrati, è passato più di mezzo secolo. Per almeno 300mila persone, l’incontro del 12 giugno a Singapore tra il leader nordcoreano Kim Jong-un e il presidente Usa, Donald Trump, non è un evento geopolitico, ma una questione privata. Per loro c’è qualcosa di più importante della de-nuclearizzazione della Corea, delle sanzioni e delle dichiarazioni sulle misure da adottare per migliorare le relazioni tra Seul e Pyongyang: si tratta delle loro famiglie. Per migliaia di coreani questo primo summit è l’ultima speranza di rivedere sorelle e fratelli da tempo perduti.
Se Kim e Donald si stringeranno la mano, loro, forse, dopo decenni la stringeranno ai loro cari, mai più rivisti dalla fine del conflitto tra Seul e Pyongyang nel 1953. Un Paese diviso vuol dire prima di tutto famiglie separate per sempre. Secondo il Dfusa, National coalition for the divided families, ci sono quattro tipi di “famiglie coreane divise”: le prime sono state separate dopo la Seconda guerra mondiale, altre hanno perso i contatti durante la Guerra di Corea, altre ancora hanno familiari tra i Pow, prisoners of war. Il quarto gruppo invece ha famiglia tra chi è stato deportato con la forza in Nord Corea durante il conflitto.
Sono almeno 300mila i cittadini americani di discendenza coreana, che hanno familiari residenti ancora a nord del 38esimo parallelo. Contatti diplomatici lenti e goffi, burocrazia ingolfata, escalation della tensione militare: almeno 20 programmi di riunione sono falliti finora. I confini sono anche temporali e generazionali, non solo geografici. Molti sopravvissuti di quegli anni di guerra sono ormai morti. Ma altri, quelli ancora vivi, sono anziani che non possono più aspettare e sperano: l’incontro tra i leader per loro è una risposta immediata che riguarda le loro origini più che i poligoni del 38esimo parallelo. Per Paul Kyumin Lee, dell’Asia program del Carnegie Endowment for International Peace di Washington, “il summit di Singapore è la migliore e ultima possibilità per rendere le “reunions”, le riunioni familiari, realtà.