Che lo si guardi dal mare, o dai sentieri della rotta balcanica, o da Bruxelles, il naufragio di chi fugge da guerre o carestie è anche il naufragio della politica europea. Nessun governo Ue è esente da colpe. Ecco perché il Regolamento di Dublino va ripensato. In chiave umanitaria

The Dubliners, in Europa li chiamano così. «Moriva dal desiderio di salire in cielo attraverso il tetto e di volare verso un altro Paese dove non avrebbe più sentito parlare dei suoi guai, eppure una forza lo spingeva dabbasso scalino per scalino». Forse solo questa frase, rubata a uno dei racconti di Joyce, è il punto di contatto tra i suoi Dubliners del 1914 e i “dublinati” di cento anni dopo. Chi fugge dal proprio Paese perché in guerra o perseguitato, in virtù del Regolamento di Dublino (ora alla III versione) deve presentare domanda d’asilo nel Paese Ue in cui sbarca. Dublinati, dunque, sono quei profughi che, identificati in Italia o in Grecia, riescono comunque a raggiungere parenti o amici altrove, ma poi – impigliati nella rete Eurodac, la banca dati delle impronte digitali dei richiedenti asilo – vengono riaccompagnati al punto di partenza secondo una pratica condannata da una recentissima sentenza della Corte di giustizia dell’Ue. Meccanismo iniquo, quello di Dublino, di cui da tempo è in ballo una riforma: una proposta è stata approvata otto mesi fa dall’europarlamento (con il no di Lega e M5s) ma il Consiglio, a guida bulgara, ha presentato una controproposta penalizzante per i Paesi in prima linea, mentre prende piede la “faccenda nera” di una esternalizzazione delle frontiere.

Il testo del Parlamento europeo «elimina il criterio del primo Paese d’arrivo, che a tutt’oggi affida solo a Italia e Grecia la gestione dei richiedenti asilo, e lo sostituisce con un meccanismo di ricollocamento obbligatorio e permanente, oltre a estendere le possibilità di ricongiungimenti familiari allargati e a prevedere sanzioni per gli Stati che non accolgano. Si tratta di cambiamenti molto positivi frutto del compromesso tra le sinistre, una parte del Ppe, socialisti e verdi. Non è ancora l’ideale ma sarebbe un cambio radicale di paradigma. Il blocco delle navi è il frutto velenoso del blocco negoziale su Dublino IV, e usa i migranti come ostaggi», spiega a Left Barbara Spinelli, eurodeputata del Gue, il gruppo unitario della sinistra europea. Già tre anni fa, di fronte a un flusso record di 48mila arrivi, un’assessora del Campidoglio sperimentò un corridoio umanitario per i transitanti, coloro che cercavano di non lasciare l’impronta dell’indice a una guardia italiana. «Fu possibile così realizzare migliaia di ricongiungimenti familiari e la politica iniziò a parlare di relocation». Ma la ripartizione dei migranti non ha mai funzionato e tre anni dopo la situazione è peggiore di quella ricordata da Francesca Danese, ora portavoce del Forum del III Settore del Lazio. «Dublino va ripensata ma lontano da questo circo mediatico sulla pelle di chi fugge dall’orrore dei campi in Libia», dice anche Giorgia Linardi, portavoce in Italia di Sea watch, una delle Ong che operano nel Mediterraneo da quando, tre anni fa, i governi europei hanno sostanzialmente azzerato le missioni di salvataggio in mare. Che lo si guardi dal mare, o dai sentieri della rotta balcanica, o dalla terraferma di Bruxelles, il naufragio di chi fugge da guerre o carestie è anche il naufragio della politica, nessun governo è innocente. Dalla Aquarius….

L’articolo di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola


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