Disse Ferdinando Imposimato (giudice istruttore dei più importanti casi di terrorismo, tra cui il rapimento di Aldo Moro) che l’errore giudiziario è un virus, capace di inocularsi in qualsiasi parte del processo e di rimanerci se il sistema non è in grado di espellerlo. Reazione che, talvolta, non avviene e che, dal più famoso caso di Enzo Tortora - del quale ricorre il trentacinquesimo anniversario dal suo ingiusto arresto - passando per il più eclatante, quello di Giuseppe Gulotta, ha prodotto, dal 1991 a oggi, circa ventiseimila e cinquecento errori giudiziari, compresa l’ingiusta detenzione, e per risarcire i quali lo Stato, dal 1992 al 2017, ha speso 768.361.091 milioni di euro, quasi 29 milioni di euro l’anno. Utilizzati, principalmente, per corrispondere gli indennizzi per le ingiuste detenzioni, che oggi, dopo la legge Carotti che li elevò da cento milioni di lire a un miliardo, hanno un tetto massimo di 516mila euro. «L’unico che lo ottenne fu Clelio Darida, ex guardasigilli e sindaco di Roma. Per tutti gli altri, è una somma simbolica che viene elargita come ristoro», racconta a Left, il presidente dell’associazione Art643, Gabriele Magno. Che precisa: «Il vero problema è l’abuso della questione della custodia cautelare preventiva, ossia per il solo fumus del reato, i presunti colpevoli vanno in carcere o ai domiciliari: per loro non è previsto il risarcimento (che, invece, spetta a chi ha subìto condanna definitiva e solo dopo la revisione del processo, grazie a nuove prove, viene assolto) bensì un indennizzo». Sempre più spesso poco riconosciuto: «un po’ perché, così facendo, si cerca di tutelare l’infallibilità del magistrato e un po’ per una questione di principio», continua Magno. Per esempio, «i magistrati che hanno assolto Enzo Tortora - prosegue Magno - sono stati ampiamente criticati perché assolvendolo hanno creato i presupposti perché vincesse il referendum dei radicali sulla responsabilità civile dei giudici». Quello del tetto massimo dell’indennizzo e quello relativo agli errori del magistrato sono due limiti che l’associazione Art643 ritiene da superare. «La nostra casistica - riferisce il suo presidente - ci ha portato a constatare che chi è stata vittima di un’ingiusta detenzione, nei due anni successivi all’assoluzione - il tempo previsto per proporre istanza di riparazione - si preoccupa di recuperare i propri rapporti umani, deteriorati e persi». E, raramente, di pensare all’indennizzo. Ma, spiega Magno, «dietro il termine dei due anni dall’assoluzione, si cela (furbescamente) la prescrizione dell’errore del magistrato. E la cosa scandalosa è che, in Italia, non abbiamo una casistica: la legge c’è ma non è stata mai applicata per evitare precedenti. Senza precedenti, il problema non esiste». Non solo. «Dal governo Monti in poi, c’è stato un grosso restringimento per il riconoscimento per l’ingiusta detenzione: i requisiti per ottenerlo sono giudicati in maniera molto più severa tanto che, in un anno, dei circa mille e settecento che finiscono in carcere ingiustamente, è accolto solo il 40 per cento delle domande», aggiunge Valentino Maimone, cofondatore, insieme a Benedetto Lattanzi, di Errorigiudiziari.com, il primo archivio on line su errori giudiziari e ingiusta detenzione. Che continua: «Le cause che stanno alla base degli errori giudiziari sono tante e molto diverse tra loro. Per citarne alcune, la superficialità delle indagini durante la fase investigativa che genera tante falle; poi, una certa propensione dei magistrati a innamorarsi delle tesi degli investigatori; inoltre, la scarsa affidabilità dei testimoni oculari, come dimostrano ormai diversi studi scientifici, della quale, invece, si tiene poco conto; e, infine, le false confessioni indotte dalla pressione psicologica esercitata dagli investigatori durante le indagini». E, così, le persone, distrutte in un solo giorno, subiscono una “condanna a morte” (anche) mediatica: dal mostro sbattuto in prima pagina all’assoluzione relegata a un trafiletto, quando, addirittura, non riportata. Chissà che con l’approdo della riforma del sistema carcerario in Commissione giustizia alla Camera - il cui iter è rimasto inconcluso nella scorsa legislatura - i nuovi deputati, oltre a prestare attenzione alle (indiscutibili) garanzie della vita detentiva e al lavoro dei reclusi, tengano nella giusta considerazione anche la riabilitazione dell’immagine di quei tanti certi innocenti.

Disse Ferdinando Imposimato (giudice istruttore dei più importanti casi di terrorismo, tra cui il rapimento di Aldo Moro) che l’errore giudiziario è un virus, capace di inocularsi in qualsiasi parte del processo e di rimanerci se il sistema non è in grado di espellerlo. Reazione che, talvolta, non avviene e che, dal più famoso caso di Enzo Tortora – del quale ricorre il trentacinquesimo anniversario dal suo ingiusto arresto – passando per il più eclatante, quello di Giuseppe Gulotta, ha prodotto, dal 1991 a oggi, circa ventiseimila e cinquecento errori giudiziari, compresa l’ingiusta detenzione, e per risarcire i quali lo Stato, dal 1992 al 2017, ha speso 768.361.091 milioni di euro, quasi 29 milioni di euro l’anno.
Utilizzati, principalmente, per corrispondere gli indennizzi per le ingiuste detenzioni, che oggi, dopo la legge Carotti che li elevò da cento milioni di lire a un miliardo, hanno un tetto massimo di 516mila euro. «L’unico che lo ottenne fu Clelio Darida, ex guardasigilli e sindaco di Roma. Per tutti gli altri, è una somma simbolica che viene elargita come ristoro», racconta a Left, il presidente dell’associazione Art643, Gabriele Magno. Che precisa: «Il vero problema è l’abuso della questione della custodia cautelare preventiva, ossia per il solo fumus del reato, i presunti colpevoli vanno in carcere o ai domiciliari: per loro non è previsto il risarcimento (che, invece, spetta a chi ha subìto condanna definitiva e solo dopo la revisione del processo, grazie a nuove prove, viene assolto) bensì un indennizzo». Sempre più spesso poco riconosciuto: «un po’ perché, così facendo, si cerca di tutelare l’infallibilità del magistrato e un po’ per una questione di principio», continua Magno. Per esempio, «i magistrati che hanno assolto Enzo Tortora – prosegue Magno – sono stati ampiamente criticati perché assolvendolo hanno creato i presupposti perché vincesse il referendum dei radicali sulla responsabilità civile dei giudici».
Quello del tetto massimo dell’indennizzo e quello relativo agli errori del magistrato sono due limiti che l’associazione Art643 ritiene da superare. «La nostra casistica – riferisce il suo presidente – ci ha portato a constatare che chi è stata vittima di un’ingiusta detenzione, nei due anni successivi all’assoluzione – il tempo previsto per proporre istanza di riparazione – si preoccupa di recuperare i propri rapporti umani, deteriorati e persi». E, raramente, di pensare all’indennizzo. Ma, spiega Magno, «dietro il termine dei due anni dall’assoluzione, si cela (furbescamente) la prescrizione dell’errore del magistrato. E la cosa scandalosa è che, in Italia, non abbiamo una casistica: la legge c’è ma non è stata mai applicata per evitare precedenti. Senza precedenti, il problema non esiste».
Non solo. «Dal governo Monti in poi, c’è stato un grosso restringimento per il riconoscimento per l’ingiusta detenzione: i requisiti per ottenerlo sono giudicati in maniera molto più severa tanto che, in un anno, dei circa mille e settecento che finiscono in carcere ingiustamente, è accolto solo il 40 per cento delle domande», aggiunge Valentino Maimone, cofondatore, insieme a Benedetto Lattanzi, di Errorigiudiziari.com, il primo archivio on line su errori giudiziari e ingiusta detenzione. Che continua: «Le cause che stanno alla base degli errori giudiziari sono tante e molto diverse tra loro. Per citarne alcune, la superficialità delle indagini durante la fase investigativa che genera tante falle; poi, una certa propensione dei magistrati a innamorarsi delle tesi degli investigatori; inoltre, la scarsa affidabilità dei testimoni oculari, come dimostrano ormai diversi studi scientifici, della quale, invece, si tiene poco conto; e, infine, le false confessioni indotte dalla pressione psicologica esercitata dagli investigatori durante le indagini».
E, così, le persone, distrutte in un solo giorno, subiscono una “condanna a morte” (anche) mediatica: dal mostro sbattuto in prima pagina all’assoluzione relegata a un trafiletto, quando, addirittura, non riportata. Chissà che con l’approdo della riforma del sistema carcerario in Commissione giustizia alla Camera – il cui iter è rimasto inconcluso nella scorsa legislatura – i nuovi deputati, oltre a prestare attenzione alle (indiscutibili) garanzie della vita detentiva e al lavoro dei reclusi, tengano nella giusta considerazione anche la riabilitazione dell’immagine di quei tanti certi innocenti.