È di fatto cancellata dalla memoria la pulizia etnica subita dai musulmani di Višegrad a fine primavera del 1992. Una lucida strategia criminale armò la mano dei nazionalisti serbo-bosniaci, fece tremila vittime e anticipò di tre anni quanto poi accadde a Srebrenica tra l'11 e il 21 luglio 1995

Srebrenica. Tutti ne avete sentito parlare. Persino negare. Ma negare cosa? Srebrenica: 11-21 luglio 1995. Il genocidio. L’urbicidio. Le fosse comuni e gli stupri di massa, figli deformi di una malattia chiamata pulizia etnica. Srebrenica. L’angoscia. Il dolore. La disperazione. L’abbandono. Il tanfo dell’impunità. L’incredulità. L’impotenza per la mancata giustizia. La paura. Srebrenica. La fine. Il compimento di un processo. Il cui inizio è stato in una terra però vicina, in una città edificata mezzo millennio or sono nella medesima valle. Quella, fertile e struggente, del fiume Drina. Ecco, allora, quel nome che per molti è giusto un’eco lontana, un ricordo svanito. Un nome difficile. Ma non abbastanza per poter essere rimosso. Višegrad. Maggio del 1992. A Srebrenica piovevano le prime cannonate, la città cadeva, veniva ripresa e assisteva ai primi atti di un lungo assedio conclusosi in ecatombe. In genocidio. A Višegrad, la nera signora raccoglieva in grande copia il primo tributo di sangue sull’altare oscuro del nazionalismo serbo-bosniaco e serbo. Del fascismo riaffacciatosi in Europa con la falce e il martello tramutati in svastica e in simboli četnici bagnati di sangue. Chi non crede s’informi. Chi non crede, parta e vada a toccare con mano. A Višegrad accade tutto all’alba del conflitto del 1992-1995, quello dell’aggressione armata serbo-bosniaca al neo-nato Stato della Bosnia Erzegovina. Nella municipalità risiedevano 21.199 cittadini. Il 62,8% della popolazione apparteneva al gruppo nazionale musulmano-bosniaco, il 32,8% a quello serbo-bosniaco; poi c’erano quelli classificati come “altri” dall’ultimo censimento jugoslavo, quello del 1991. Un’enclave a maggioranza musulmana in un territorio, quello della Repubblica serba di Bosnia (Rs), a larga maggioranza serbo-bosniaca. Come a Srebrenica.

Alla fine di aprile del 1992 Višegrad è saldamente nelle mani dei militari ex-jugoslavi del Corpo di Ušice, mandati dalla Serbia per prendere la città e predisporre tutto affinché si compia il primo spietato esperimento di pulizia etnica. Nei giorni della caduta (databili tra il 6 e il 13 aprile 1992), circa 13mila musulmani-bosniaci riescono a lasciare Višegrad e a rifugiarsi dove possono. Una volta assicuratosi il controllo della città, i media controllati dalla propaganda di Pale diffondono la notizia che chi vuole può tornare. Nessuno dei musulmani risponde all’appello. Allora scatta la minaccia: chi non torna perderà il lavoro, i campi, le bestie, la casa, tutto. In migliaia si lasciano convincere. Il 19 maggio 1992 il Corpo di Ušice si ritira e lascia la città nelle mani delle Aquile bianche, sanguinari paramilitari comandati da due cugini, Milan e Sredoje Lukić. La polizia e i comuni cittadini trasformatisi in persecutori lanciano una campagna di pulizia etnica senza quartiere ai danni dei non-serbi. Alla fine, almeno tremila persone saranno ammazzate. Non passa giorno in cui villaggi non siano attaccati; in cui a Višegrad e nei dintorni uomini, donne e bambini non siano vittime delle peggiori violenze, fino alla morte. Torture, stupri di donne e bambine, violenze sessuali di gruppo, come nel famigerato hotel termale Vilina Vlas (Capelli di fata), saccheggio, minacce, sparizioni forzate, esecuzioni sommarie, omicidi di massa, roghi di esseri umani rappresentano la quotidianità fino a tutta l’estate e la “normalità” fino almeno all’inizio di ottobre del 1994. Višegrad diventa l’inferno in terra. Višegrad si trasforma nella prima attuazione sul campo della pulizia etnica. È nel giugno del 1992 che i cugini Lukić giocano le loro carte più sporche.

Il 14 giugno 1992, Vivovdan, festa cara ai serbi che ricorda il martirio di San Vito nel 303 dopo Cristo, a Višegrad circa 70 persone – rastrellate soprattutto nel villaggio di Koritnik, principalmente donne, bambini e anziani – vengono picchiate, violentate e derubate, quindi rinchiuse nella cantina di una casa di Pioniriska ulica, una via non centrale. L’abitazione, oggi restaurata, è di proprietà di un musulmano, Adem Omeragić. Milan e Sredoje Lukić, Mitar Vasiljević e i loro paramilitari tirano una granata in casa attraverso una finestra. Poi Milan Lukić appicca il fuoco gettando dentro la casa un ordigno incendiario. Le fiamme salgono alte e non si affievoliscono prima di ore, alimentate con la benzina attraverso un buco precedentemente aperto nel solaio del piano superiore. Quel foro è ancora lì. Nel rogo muoiono almeno 55 civili (secondo alcune fonti, fino a 60), oggi ricordati da una targa apposta su una parete esterna della casa, contro la volontà dell’amministrazione comunale ultranazionalista in carica. La vittima più anziana ha 75 anni, la più giovane è una bimba di soli due giorni di vita. Tra le fiamme ardono i corpi di un’intera famiglia di 46, forse 48 persone. La famiglia Kurspahić. Tra i morti ci sarebbero 17 bambini con meno di 14 anni d’età. Alcune vittime riescono a fuggire approfittando del fumo, non viste dagli aguzzini. Altre, invece, vengono ammazzate a colpi d’arma da fuoco. A sparare è soprattutto Milan Lukić, nome in codice Lucifero al Tribunale penale internazionale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia (Tpi).

Nella stessa giornata, una cinquantina di uomini viene fatta salire a bordo di mezzi civili con destinazione Tuzla. Lungo la strada i mezzi vengono intercettati dai militari dell’esercito della Rs. I prigionieri sono costretti a salire su un autobus e vengono portati a Rogatica, vicino Višegrad, dove passano la notte. Da qui la mattina del 15 giugno vengono fatti proseguire fino a una piccola località chiamata Paklenik, in prossimità della gola di Propast. Tutti vengono uccisi, tranne Ferid Spahić, che diventerà un testimone chiave. I resti dei morti vengono recuperati solo nel Duemila. Il 18 giugno 1992 a Višegrad i paramilitari uccidono 22 persone. Alcuni corpi vengono dilaniati con i coltelli, altri legati alle automobili e trascinati per le vie; bambini vengono gettati dal ponte vecchio, il Mehemed Paše Sokolovića most, e uccisi a colpi d’arma da fuoco prima che tocchino l’acqua, come in un tiro al bersaglio dell’orrore. Un ispettore della polizia di Višegrad riceve una comunicazione dal direttore della diga sulla Drina di Bajina Bašta, in Serbia: «Chiedo a tutti i responsabili di rallentare il flusso dei corpi che galleggiano lungo il fiume perché inceppano le turbine della diga…», dice l’uomo. Gli occhi azzurri della Drina per mesi si sono trasformati in un lago rosso sangue, la più grande fossa comune liquida di quella guerra. Il 25 giugno 1992 vengono rastrellati centinaia di cittadini musulmani-bosniaci di Višegrad; sono costretti a firmare una dichiarazione nella quale attestano d’essere stati trattati bene dai paramilitari serbo-bosniaci. Vengono fatti salire su autobus con destinazione Macedonia e deportati in massa. Alcuni sono fatti scendere dopo pochi chilometri e uccisi davanti a tutti, per divertimento o a titolo dimostrativo. I superstiti, arrivati alla frontiera macedone, vengono abbandonati – umiliati e maltrattati – in una terra di nessuno senza né cibo né acqua.

Il 27 giugno 1992 a Bikavac, un quartiere periferico di Višegrad, i cugini Lukić rinchiudono in una casa altri 70 musulmani, tra cui dei neonati. Poi appiccano le fiamme col sistema di Pioniriska ulica. Secondo alcune fonti, tutti sarebbero arsi vivi; secondo altre fonti, le vittime sarebbero state almeno 60. Nello stesso giorno si ha notizia di almeno cinque donne trasferite nell’hotel termale Vilina Vlas, trasformato in bordello, dove le prigioniere sono violentate per giorni dai paramilitari e dai loro fiancheggiatori. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, al Vilina Vlas sono state detenute e maltrattate circa duecento donne. Alcune si sono suicidate. La maggior parte sono state uccise o sono scomparse. Ma il Vilina Vlas non è rimasto chiuso neppure per un giorno al pubblico. Tutto questo mentre da quest’altra parte dell’Adriatico, esattamente 26 anni fa, ci si preparava per andare in ferie.

L’articolo di Luca Leone è tratto da Left in edicola


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