Il Parlamento europeo ha approvato un documento che riforma le prassi con cui vengono eletti i suoi membri. Penalizzando i soggetti politici più piccoli. In violazione dei trattati Ue

Lo scorso 4 luglio il Parlamento europeo ha approvato una proposta del Consiglio del 14 giugno, tesa a modificare le disposizioni comuni per l’elezione dell’Europarlamento stesso: un testo che mantiene all’articolo 3 comma 1 la possibilità per ogni Stato membro di introdurre o mantenere soglie d’accesso facoltative, fino al 5% nazionale. Non solo. Al comma 2 viene introdotta una soglia circoscrizionale minima del 2% e massima del 5% nei Paesi che prevedono circoscrizioni che eleggano più di 35 deputati a scrutinio di lista, anche nei casi in cui lo Stato costituisce una circoscrizione unica.

Nelle premesse dell’atto si dice che bisogna adottare delle misure per aumentare la partecipazione dei cittadini, considerandola essenziale per la legittimazione dell’Ue. Si suggeriscono dunque una serie di misure come l’introduzione del voto anticipato, per corrispondenza o per internet ed anche di permettere il voto di cittadini residenti in Paesi terzi. Il processo di revisione della decisione 76/787/Ceca, Cee, Euratom del Consiglio del 20 settembre 1976, ossia della prima norma che prevedeva l’elezione diretta del Parlamento europeo, è iniziato nel 2015. Ma, come al solito, ha avuto un’improvvisa accelerazione, che viola la principale raccomandazione del “Codice di buona condotta elettorale” della Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa, ossia che non si introducano modifiche sostanziali o importanti nelle legge elettorali se non almeno un anno prima delle elezioni. Una raccomandazione che non potrà essere osservata. 

Con il voto favorevole del Parlamento europeo la procedura non è terminata, perché dovrà tornare in Consiglio per la presa d’atto della deliberazione del Parlamento europeo per poi essere sottoposta all’approvazione unanime degli Stati membri secondo le loro rispettive regole costituzionali. Con il Trattato di Lisbona, i Parlamenti nazionali possono intervenire nella fase ascendente delle normative europee. Sulla proposta del Consiglio si sono espressi negativamente Francia, Lussemburgo, Olanda, Svezia e Regno Unito.

Non risulta che il Parlamento italiano se ne sia occupato a livello assembleare. Per essere sintetici al limite della brutalità: queste modifiche sono in contrasto con il Trattato di Lisbona e quindi non potrebbero essere approvate dal nostro Parlamento, per violazione dell’articolo 117 della Costituzione che prevede il rispetto degli obblighi internazionali. Il Parlamento europeo, infatti, rappresenta ora direttamente i cittadini della Ue (come prevede l’articolo 10 del Trattato sull’Unione europea, in seguito alla riforma operata dal Trattato di Lisbona del 2007) e non più i popoli degli Stati: quindi non sono legittime soglie d’accesso facoltative, nazionali e variabili. Un cittadino deve poter votare e candidarsi in ogni Paese europeo in base al principio che uno vale uno.

Il punto è che l’Unione è in una grave crisi politica e pensa di uscirne impedendo la nascita di nuovi soggetti politici. Da un lato si impreca contro populismi e sovranismi e dall’altro si pensa ancora che il lavoro sporco lo debbano fare gli Stati nazionali. In Italia, la soglia d’accesso del 4% fu introdotta nel 2009, con la motivazione testuale dei relatori che si doveva impedire che entrassero nel Pe le forze escluse da quello nazionale nel 2008 e funzionò a meraviglia: furono esclusi dalla rappresentanza più di 3 milioni di voti validi. Se viene approvata la riforma europea, la Corte costituzionale il 27 ottobre non potrà decidere sulla soglia del 4% ritenuta incostituzionale dal Consiglio di Stato.