In tribunale a Roma al processo che vede imputati cinque carabinieri di cui tre per omicidio preterintenzionale, le deposizioni della madre Rita, del padre Giovanni e della sorella Ilaria. «Quello che vedevo non era più Stefano ma uno scheletro», ha detto la madre

L’ultimo abbraccio al padre, con le manette già ai polsi e quella frase ripetuta prima e dopo l’udienza preliminare: «Lo vuoi capire, papà, che mi hanno incastrato?!». «Aveva il viso gonfio come una zampogna e quei segni neri sotto agli occhi». Le ultime ore alla luce del sole di Stefano Cucchi, prima della via crucis tra prigioni e ospedali che sarebbe finita solo con la sua morte, sono riecheggiate nell’aula di Piazzale Clodio dove s’è tenuta l’ultima udienza prima della pausa estiva. Oggi, 17 luglio, è stato il giorno delle voci rotte, delle frasi spezzate dalla commozione, da quel dolore che inchioda da nove anni una famiglia a questa interminabile battaglia per verità e giustizia.

È stato il giorno dei genitori e della sorella di un giovane geometra di periferia, arrestato il 15 ottobre 2009 per possesso di sostanze stupefacenti una sera di ottobre e morto sei giorni dopo, nascosto agli sguardi di tutti, in un letto d’ospedale, il letto di un reparto penintenziario al Pertini di Roma. Lo chiamano il repartino. «È finita papà», disse al termine della pasticciata udienza preliminare che lo spediva in carcere anziché ai domiciliari oppure in comunità come avrebbe voluto suo padre. Giovanni Cucchi è stato l’ultimo a ricordare e a rispondere alle domande del pm e degli avvocati restituendo l’orrore di un calvario – da Regina Coeli al Pertini dal tribunale di sorveglianza e di nuovo al “repartino” – parallela a quella di suo figlio, alla ricerca di notizie, di carte e timbri, scontrandosi col muro di gomma di una burocrazia carceraria finché arrivò l’ultimo timbro ma quel cancello blindato si aprì e qualcuno disse «S’è spento».

«Come s’è spento? Come?». È la risposta che tutti si aspettano da questo processo. «Stefano prima dell’arresto stava bene, i testimoni sono credibili e la tesi del decesso per inanizione (morte per fame, ndr) è una fake news», sintetizza a Left Fabio Anselmo, legale di questo e altri processi di malapolizia. Nelle varie testimonianze riaffiora il nome di Emanuele Mancini, l’amico arrestato con Stefano; alcuni giorni dopo incontrò Giovanni Cucchi e si confidò: «Mi sento un peso perché sono stato costretto a firmare la deposizione», così hanno ricordato in aula i familiari di Stefano.
Nemmeno all’obitorio glielo volevano far vedere. Solo dopo molte insistenze consentirono di mostrare il corpo ma da lontano, e solo il volto fuori dal lenzuolo che copriva lo scempio di quel pestaggio dopo l’arresto – così recita l’accusa di omicidio preterintenzionale per tre dei cinque carabinieri sotto processo da quando l’Arma è uscita dal cono d’ombra che l’aveva coperta per anni dopo i fatti.

«Com’è possibile che un ragazzo nelle mani dello Stato sia stato ridotto nel modo in cui l’ho visto all’obitorio? Una cosa spaventosa; non lo auguro a nessuno. Ha presente un marine morto col napalm in Vietnam… Ancora non ci credo, inconcepibile che sia stato negato il diritto alla salute a una persona in custodia, anche se aveva commesso un reato. E nemmeno quel minimo di umanità nella comunicazione con noi…», ripete Giovanni Cucchi con l’indignazione da persona per bene e tutta la forza che ci vuole per ricacciare indietro le lacrime, la voglia di gridare, probabilmente. Così per bene che, una ventina di giorni dopo, non appena trovata la forza di andare a riordinare la casa di Stefano, nel quartiere Morena, al confine con Ciampino, non avrebbe esitato a denunciare il ritrovamento di alcune dosi di cocaina e di hashish in un armadio di quella casa. «Io sono stato duro con Stefano sia in vita sia in morte, denunciando proprio questo fatto».

Il padre di Cucchi ha rivangato i problemi di tossicodipendenza del figlio, del periodo passato in due comunità, delle ricadute da eroina e di quanto fatto in famiglia per fargli superare i problemi. «Sono stati dieci anni d’inferno – ha detto – noi abbiamo fatto tutto il possibile. Stefano tutti gli sbagli che ha fatto li ha sempre pagati».
Prima di Giovanni hanno parlato, rispettivamente, Ilaria Cucchi e la madre di Stefano, Rita. «La morte di un figlio è terribile, non ti potrai mai rassegnare». Rita Cucchi è stata precisa, «scientifica», commenta l’attivista di Acad che segue il processo, ma crolla quando il suo racconto la riporta all’obitorio. «Non l’ho riconosciuto. Quello che vedevo non era più Stefano – ha detto – era uno scheletro, tutto nero, un occhio di fuori, la mascella fratturata». E la sera prima dell’arresto, forse un presagio. «Mio figlio mi disse “abbracciami, dormi tranquilla, vedi che adesso sto bene”. Fu l’ultimo abbraccio con mio figlio. Verso l’una di notte sentii suonare il citofono: erano i carabinieri che venivano per la perquisizione». E il giorno dopo «mio marito andò in tribunale; al ritorno disse che Stefano era stato trattenuto. Era disperato. La prima cosa che mi disse fu che mio figlio l’aveva trovato gonfio in viso e pesto sotto gli occhi; e che forse qualche pugno glielo avevano dato».

L’ultimo giorno, la terribile notizia. «Due carabinieri mi consegnarono un foglio e poi uno mi disse “devo darle una brutta notizia: suo figlio è deceduto. E questo foglio è per nominare un consulente per l’autopsia”. Come pazzi, con mio marito corremmo al Pertini. L’unica cosa che ci dissero fu: «Suo figlio si è spento».
«Non posso dimenticare le urla disperate dei miei genitori all’obitorio quando ebbero la possibilità di vedere il cadavere del figlio. Piangevano, li sentii gridare “Dio mio, che ti hanno fatto”. Io non avrei voluto vederlo, preferivo ricordarlo con il suo sorriso. Ma poi ho ceduto e ho visto una scena pietosa: un corpo irriconoscibile, non sembrava neppure Stefano. Aveva il volto tumefatto, un occhio fuori dall’orbita, la mascella rotta, l’espressione del volto segnato dalla sofferenza e solitudine nella quale era morto», ha riferito la sorella Ilaria. «La nostra era una famiglia fantastica e meravigliosa, sempre unita, nonostante le tante batoste dovute ai problemi di tossicodipendenza di Stefano – ha detto ancora – non c’era Natale o compleanno che non festeggiassimo sempre assieme. Stefano era come me, non tollerava le ingiustizie. Spesso litigavamo anche pesantemente, ma da parte sua non ricordo mai un gesto di violenza fisica. Aveva un bel caratterino. La sera prima dell’arresto era andato in palestra. Stava bene, era magro come me, ma non aveva alcun problema di salute. Fino all’ultimo istante della sua vita ha combattuto e lottato per essere aiutato».

Il racconto straziante lascia tutti in silenzio. Ilaria durante la deposizione su cosa pensa sia avvenuto al fratello conclude guardando negli occhi il maresciallo Mandolini: «la cosa assurda è che questa tragedia è avvenuta grazie a una persona che è in questa aula». Mandolini è un veterano di parecchie missioni di “pace” e poi è stato comandante di stazione dei cinque carabinieri indagati per il pestaggio di Cucchi, a sua volta imputato per aver preso parte alla «minuziosa strategia» che, per sei anni, secondo l’accusa, ha impedito di capire cosa fosse successo prima dell’udienza preliminare. Stando alle carte, avrebbe scritto di suo pugno, in calce ad uno degli ordini di servizio contraffatto quella notte, un commento che ora suona agghiacciante: “Bravi!” (pagina 47 della richiesta di incidente probatorio). “I carabinieri hanno fatto il loro dovere, arrestarono un grande spacciatore che spacciava fuori le scuole di un parco di Roma (…). Tutto il resto è speculazione politica per soldi e per arrivare in Parlamento”, tagliò corto il maresciallo commentando in rete un articolo che ricostruiva i fatti. Il suo legale, in aula, sembra preoccupato solo di sapere perché Giovanni Cucchi non si fosse preoccupato lui di avvisare l’avvocato di famiglia. Ma quel legale era stato nominato da Stefano Cucchi ed era dovere preciso della stazione dei carabinieri notificare la nomina. Ma il trentunenne arrestato, la mattina successiva, trovò ad attenderlo un avvocato d’ufficio. Un’altra delle domande a cui deve rispondere questo lungo processo. Che è stato rinviato al 27 settembre.