Nel 2001, a Genova, quando chiedevamo giustizia sociale mondiale, abolizione del debito estero, parlavamo di noi, del nostro futuro, dell’esodo di persone costrette a lasciare le proprie terre. Oggi quelle idee giuste potrebbero sembrare disseccate al sole nero della reazione fascista, populista e neoliberista. Ma la talpa scava...

Ero sulla trentina, quando esplose a Seattle il movimento chiamato “no global”, e avevo passato il decennio precedente a cercare, attorno a me, i segni di una stagione di impegno e di passione politica diffusa che in fondo, nella mia provincia estrema, non avevo mai visto. Quando arrivarono le notizie da Seattle, fu come una risorgenza: stavolta era nel nostro Nord del mondo la scintilla della rivolta, in cui si tornava finalmente ad affermare che “Un altro mondo è possibile”. E allora, l’anno seguente, nel 2001, via a Praga, per il vertice del Fondo monetario internazionale, e poi la settimana di Genova, per seguire dibattiti, incontrare persone, prendersi le strade.

In questi diciassette anni non sono mai mancato, il 20 luglio, da Genova, da piazza Alimonda, a tener traccia della centralità di quell’evento per le nostre vite, per ricordare, certo, ma soprattutto con la speranza di tener vivo quel fuoco per trasmetterlo e aprire un futuro. Ma che cosa è restato di quel movimento, nel corpo sussultante di questa società?

Poco e niente, verrebbe da dire al mio sguardo atrabiliare, appesantito dalle forche caudine della dittatura finanziaria da una parte, e della risposta reazionaria sovranista dall’altra. Ma la talpa scava, lo sappiamo, anche nei momenti più bui la talpa scava, e occorre vederne la direzione, attendendo che torni alla luce. Perché comunque, quella presa di coscienza epocale di cui Genova segnò il momento più intenso (ne fu Evento, direbbe Badiou), ha segnato un discrimine: tanto che nemmeno le parole d’ordine del sovranismo sarebbero pensabili, senza che certe idee “no global” fossero diventati luoghi comuni (tra i ragazzi a scuola, per esempio, sono luoghi comuni lo strapotere delle multinazionali, o delle banche).

Quelle idee sono state pervertite e disseccate al sole nero della reazione fascista, esattamente come il fascismo nacque dalla perversione del marxismo. Non stiamo vivendo lo stesso passaggio di quando il nazionalismo dei Corradini, progenitore del fascismo, si appropriò delle categorie di “borghesi” e “proletari”, applicandole alle nazioni, invece che alle classi? Ecco, oggi, al posto dei Corradini, ci sono nani del pensiero come Fusaro che compiono la stessa operazione. Dimenticandosi che strappare la lezione marxiana all’internazionalismo è come dirsi cristiani senza credere in Dio (cosa che, comunque, ha ben più senso).

Il movimento di Genova, invece, era meravigliosamente internazionalista. Ed è questo ciò di cui oggi sento maggiormente la mancanza. La capacità di considerare le questioni nella prospettiva più ampia, con il coraggio della complessità, cosa che sfugge ai semplificatori (del resto tra i vizi che Gobetti attribuiva endemicamente al nostro Paese, alla sua autobiografia sfociata nel fascismo, c’era proprio quella di ricercare scorciatoie). E questo internazionalismo si accompagnava a una messa in discussione radicale delle forme della rappresentazione politica, prima ancora che della rappresentanza. Il movimento proponeva un percorso dove anime diverse condividevano pratiche diverse, che indicavano una via d’uscita – purtroppo non colta da nessuno – fuori dalle categorie e dalle logiche novecentesche.

Era, di fatto, un movimento intimamente libertario, nella sua reticolarità e orizzontalità, nelle pratiche consensuali, nell’accoglimento delle differenze come ragion d’essere stessa di una pratica comune. Fu anzi l’oscuramento di quella natura eterogenea, polimorfa e irriducibile, e il riformarsi di logiche egemoniche interne, gruppi e gruppetti, uno dei motivi principali del declino di quell’esperienza e della morte per soffocamento del Social forum. Gli Indignados, Occupy e via dicendo sono stati movimenti che nascono recuperando le istanze di quel movimento, una democrazia radicale che, come ricorda David Graeber, è una pratica meticcia e egualitaria, che nasce nelle frontiere. E del resto, quando il movimento di Occupy contrapponeva il 99% all’1%, non faceva che riprendere uno slogan del movimento di Genova, focalizzando lo strettissimo nodo – di classe – tra potere del capitale, nell’epoca dell’egemonia del capitale – finanziario, e potere politico.

Del resto, quanti negli anni Novanta avevano coscienza di quella grande trasformazione che oggi, sulla scia di Luciano Gallino, abbiamo imparato a nominare “finanzcapitalismo”? Io no di certo, e fu merito di quel movimento se cominciai a rendermi conto di quel passaggio storico. E, allo stesso modo, quando chiedevamo giustizia sociale mondiale, abolizione del debito estero, non stavamo parlando di noi, del nostro futuro, dell’esodo di persone costrette a lasciare le proprie terre? È chiaro come il sole, avevamo ragione noi. Si tratta di rivendicare quel movimento.

Se vogliamo costruire una nuova forma politica che possa fare qualche opposizione sensata al sovranismo, è da lì che dobbiamo ripartire. O Genova, o barbarie.

 

L’articolo di Marco Rovelli è tratto da Left del 20 luglio 2018


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