Abbandonare il proprio patrimonio linguistico è una perdita? I casi di Conrad, Nabokov e Brodskij dimostrano che le lingue sono vive e che noi viviamo tra le lingue. Va ripensato il concetto di letteratura nazionale partendo dalla polifonia di voci che la abitano

In un testo di recente pubblicazione, Di un poetico altrove, la scrittrice italofrancese Mia Lecomte traccia una panoramica dettagliata di quello che è stato dagli anni Sessanta a oggi la letteratura transnazionale italofona o, come vent’anni fa l’ha definita il critico Armando Gnisci, la «letteratura della migrazione». In questo testo, in cui si percorre una zona grigia della letteratura abitata da autori in esilio, migranti, spatriati, scrittori bilingue che fanno parte di culture diverse e che all’improvviso si trovano senza nessuna appartenenza o che vivono in un perenne oltre confine, Mia Lecomte disegna la mappa sempre più allargata del nuovo universo letterario costituito da vari autori difficilmente classificabili, appunto, perché scrivono oltre confine, sia nazionale che linguistico. Ed è per questo che c’è una sorta d’impossibilità a racchiudere questi autori in una categoria unitaria o a ingabbiarli in una griglia determinata. Considerando questo scenario complesso, spesso fatto di sofferenze personali, straniamenti e abbandoni della propria terra, possiamo chiederci, che cosa accade in un autore quando decide di abbandonare la sua lingua per scrivere in una diversa dalla propria? Che cosa si perde in questo passaggio e che cosa si acquista? E poi, perché si lascia una lingua per adottarne un’altra?
In un libro autobiografico, Parla, ricordo, Nabokov racconta che durante il suo esilio a Cambridge (dopo aver lasciato prima San Pietroburgo nel 1917 e poi la Crimea nel 1919) si era dedicato alla lettura di soli autori russi: «Il timore di perdere o di inquinare con influssi stranieri l’unica cosa che ero riuscito a mettere in salvo dalla Russia – la lingua – divenne decisamente morboso e assai più assillante del timore, sperimentato due decenni dopo, di non essere affatto in grado di portare la mia prosa in inglese a un livello paragonabile a quello del mio russo». Nella lontananza la lingua madre, quella che Dante nel Convivio chiamava «cagione del mio essere», si trasforma nell’unico rifugio in cui lo straniero può sentirsi accolto. Insomma, diventa lo spazio dove…

L’articolo di Adrian Bravi prosegue su Left in edicola


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