L'arte giapponese. Oltre la grande onda. La ricerca continua di Hokusai raccontata da Timothy Clark del British Museum. E l’estetica di Hiroshige che influenzò Van Gogh e gli impressionisti

Tutti conoscono La grande onda di Kanagawa, lo tsunami che emerge da una xilografia di Hokusai del 1830.
Meno noto è ciò che realizzò con grande coraggio e capacità di riaprire il gioco della ricerca nell’ultimo spicchio della sua vita quando viveva con la figlia Eijo in case in affitto che, anche per ragioni economiche, cambiava di continuo. Anche Eijo, tornata a vivere con il padre dopo il divorzio, era una pittrice di talento e sicuramente contribuì alle opere dell’anziano Hokusai (1760-1849) ma non si è riusciti ancora con certezza a distinguere l’opera dell’uno e dell’altra. Questa è una delle tante ricerche aperte proposte da Timothy Clark nell’affascinante volume, Oltre la grande onda, edito da Einaudi, in cui il curatore del Department of Asia del British museum propone una lettura degli ultimi decenni della vita di Hokusai, esplorando «decadi ricche di innovazione e ispirazione». In novant’anni anni di vita l’artista giapponese delle Trentasei vedute del monte Fuji (che la tradizione indicava come fonte di acqua e di vita) seppe rinnovarsi costantemente, dedicandosi alle xilografie, alla pittura, all’illustrazione (circa 200 volumi) e alla letteratura popolare dai contenuti romantici e fantastici. La ricchezza di stili che emerge dalla sua produzione è impressionante: si passa dalle stampe a soggetto teatrale (con una forte influenza delle maschere del Teatro No, ma anche del più “espressionista” Teatro Kabuki), a raffinati fogli augurali, xilografie con l’ombreggiatura, grandi serie paesaggistiche. Cromia spregiudicata e forme essenziali caratterizzano in modo particolare i paesaggi, tanto che alcune mature creazioni arrivano a sembrare quasi astratte.

Da questa articolata monografia curata da Timothy Clark, che invita a vistare la collezione del British (e – aggiungiamo noi – la mostra dedicata a Hokusai e Hiroshige che approda dal 12 ottobre al Museo archeologico di Bologna) emerge un ritratto poliedrico di Hokusai, artista letterato che collaborava attivamente con altri artisti. La xilografia lo richiedeva espressamente: chi disegnava aveva bisogno di un incisore, di uno stampatore e di un editore. Ma non era solo questa contingenza a spingerlo a lavorare con gli altri; l’esigenza di rapporto nasceva dall’idea che l’arte non fosse una pratica elitaria, ma «un modo per essere in sintonia con il mondo».

Tutt’altro che solitario e bizzarro (come invece ce l’hanno raccontato molti libri), nonostante alterne vicende, Hokusai cercò sempre di sviluppare la propria poetica. Colpito da un fulmine e poi da una malattia, ebbe la forza ogni volta di rialzarsi. Avanti negli anni, tentò di recuperare dopo un ictus misurandosi con il disegno, come “esercizio”. «Ogni volta trovò strade nuove usando intelligenza, immaginazione, ingegnosità», racconta Clark. Una grossa svolta fu a 61 anni quando, cambiando nuovamente nome d’arte, si chiamò Iitisu (“diventare uno”), cercando di diventare tutt’uno con la propria creazione.

Comprendere il mondo attraverso la pittura era sempre stata la sua aspirazione, cercando di varcare il confine fra visibile invisibile. Da questo punto di vista l’ultimo quindicennio si dimostrò particolarmente fertile. Dopo un incendio in cui perse molte sue opere decise di concentrasi sulla pittura, lo fece per un decennio, sviluppando il proprio pensiero e il percorso creativo. Del resto era sempre stato convinto che la sua arte sarebbe maturata con gli anni.

«Avvicinandosi al buddismo Nichiren prese ad esplorare il mondo della natura, intesa come rapporto fra macrocosmo e microcosmo», spiega Timothy Clark. Ma il rapporto con il reale non fu mai piatta mimesis: dalle sue raffigurazioni di animali traspaiono potenti autoritratti, mentre le rappresentazioni di animali immaginari reinventano antiche tradizioni, come quella del leone portafortuna di origine cinese, simbolo di forza e maestà, come del resto la tigre, che tre mesi prima di morire rappresentò mentre avanza con leggerezza nella neve con sguardo sognante non da cacciatrice. Come molti giapponesi del periodo Edo, Hokusai leggeva correttamente sia il giapponese che il cinese. Dall’incontro fra queste due culture nascono opere che raccontano eroi della tradizione poetica cinese (amava particolarmente i poeti del periodo Tang 618-907) e scene dal giapponese Racconto di genji, come la zuffa del gatto cinese, che porta in primo piano una misteriosa principessa che appare dietro un paravento con un elegante kimono. Con figure mitologiche come il drago nelle nuvole della pioggia approda a una tecnica raffinatissima, dipingendo tonalità cromatiche via via sempre più scure su un foglio color avorio. Ma anche il sorprendente domatore di demoni, dipinto in rosso e ritratto di tre quarti, vive di complesse ombreggiature. Grande audacia pittorica caratterizza anche il biennio finale 1847-1849 quando aveva tra gli ottantotto e i novant’anni.

Accanto ai mondi reali e a quelli immaginati che arrivano fino ai racconti di fantasmi, non mancano nell’universo di Hokusai topoi dell’ukiyo-e (“immagini del mondo fluttuante”) come scene di vita quotidiana, schizzi d’immagini “fulminee”, in presa diretta, e ritratti di belle donne (bijinga). Sono immagini femminili che esprimono grazia e sensualità, rappresentate sole o in gruppo, con linee sinuose che, senza soluzione di continuità, danno una forma originale all’insieme. Ogni giovane (anche il ragazzo ritratto mentre pensa con accanto il calamaio) appare immerso in sensazioni e visioni interiori. Dall’estetica ukiyo-e che si era diffusa a partire dal Seicento a Edo (l’attuale Tokyo) sulla spinta delle classi medie, Hokusai trasse lo spunto per immagini molto delicate: le figure esprimono uno stato languido, quasi melanconico. Con grande maestria riesce a rappresentare istanti sospesi come quello in cui una fanciulla sembra fermarsi un attimo lasciandosi inebriare dal profumo dei fiori al primo cadere della pioggia. Una scena che ben esemplifica il concetto di bellezza “kire” della tradizione giapponese, di cui Ryōsuke Ōhashi ripercorre la storia nel volume Kire: il bello il Giappone (Mimesis) curato da Alberto Giacomelli. Bellezza che nella tradizione nipponica ha a che vedere con la gratuità, come gesto fine a se stesso, senza secondi fini. La bellezza come kire precisa lo studioso, non è solo “fanciullesca” o astrattamente ideale ma può risplendere nel volto di un vecchio nei segni lasciati dal «travaglio del diventare»; la bellezza intesa come kire-tsuzuki, esprime l’esperienza della «dis/continuità» rappresentata dal flusso interrotto della gestualità kabuki, oppure dalla caducità di un fiore di ciliegio, riecheggiando la nostra stessa fragilità. L’arte e la bellezza nascono da un dialogo incessante con la natura «impastata della stessa materia di cui siamo fatti noi», da qui nasce la concezione filosofica nipponica che si riflette nell’architettura, nella ricerca di paesaggi o piante o rocce insolite e singolari.

Questo tipo di estetica si diffuse anche in Europa alla fine del periodo di isolamento del Giappone, durato dal 1641 al 1853. Lo stesso in cui fiorì, anche per contestazione, il gusto per l’erotico, per il grottesco, per il nonsense. I libri di Bakin con illustrazioni di Hokusai rispondevano a questa esigenza. Interventi di curiosa, bizzarra, ironia si scorgono in molte opere di Hokusai, affidati a rane o altri piccoli animali. Si ritrovano anche nei più pacati e poetici paesaggi di Hiroshige, come si può vedere visitando la mostra alle Scuderie del Quirinale a Roma che questo fine settimana approda al finissage. Vent’anni dopo la morte di Hokusai si concluse l’isolamento nazionale, il Giappone si apriva all’Occidente. Ma già a dieci anni dalla sua morte (1849), Hokusai era una leggenda in Occidente. La sua presenza si fa sentire, in vario modo, nei lavori di Manet, Degas, Van Gogh, Gauguin, Lautrec o Seurat. Il suo approccio all’arte, appassionato e disincantato, era ammantato da un alone di eccentricità che nell’immaginario ottocentesco caratterizzava l’artista di genio. Le sue stampe arrivate come carta d’imballaggio, diventarono ben presto oggetto da collezione. Lo stesso Van Gogh ne custodiva molte. Lo studio delle linee nette e dei colori piatti stesi in ampie campiture furono di stimolo alla sua ricerca sul valore espressivo del colore, fuori da ogni intento naturalistico. Come racconta la mostra romana, amò particolarmente le stampe di Utagawa Hiroshige (1797-1858) vere e proprie invenzioni di fantasia in cui immagine e scrittura formano composizioni del tutto nuove.

L’articolo di Simona Maggiorelli è stato pubblicato su Left del 27 luglio 2018


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