Le strade di Asmara si sono riempite, quelle di Addis Abeba anche: fiori, bandiere, lacrime per un giorno storico, il 9 luglio, l’incontro tra il presidente eritreo Isaias Afewerki e il primo ministro etiope Abiy Ahmed. La firma dell’accordo di pace – già imbastito nel 2000 ma mai entrato in vigore – mette fine a una guerra lunga 18 anni. Le linee telefoniche tra i due Paesi sono state riattivate dopo due decenni di silenzio, i voli aerei sono ripresi, l’ambasciata eritrea nella capitale etiope ha riaperto le porte. La svolta, facilitata dalla vittoria alle elezioni etiopi del 28 marzo dell’oromo Ahmed e dalle prime riforme liberali, è stata salutata in tutto il mondo come volano per il cambiamento di molti rapporti interni al Corno d’Africa sul piano politico ed economico. Soprattutto a fronte di una crescita costante di Addis Abeba, sostenuta dagli interessi dei Paesi del Golfo e dalla necessità di uno sbocco sul mare: fino al 1998 e allo scoppio della guerra di confine, era il porto eritreo di Assab lo scalo usato per le merci etiopi. Con il conflitto, Addis Abeba si è spostata in Gibuti, ma le infrastrutture carenti ne hanno limitato le potenzialità economiche. Non stupisce, dunque, il ruolo negoziale di Arabia Saudita ed Emirati Arabi che vedono nella pace il migliore strumento per legare a sé le economie di due Paesi a un passo dallo strategico stretto di Bab al-Mandab, sul Mar Rosso. Non mancano dubbi sulle dispute territoriali, tuttora accese, in particolare nella città di frontiera di Badme e nella Dancalia (di cui Assab è parte), teatro di proteste degli afar eritrei che non intendono essere messi all’angolo nel caso di una normalizzazione.
Ma al di là di denaro e flussi economici, è un altro l’elemento che…
La storica fine delle ostilità tra Eritrea e Etiopia può avere ricadute drammatiche sugli eritrei che tentano la fuga dalla dittatura verso Europa e Africa. Perché paradossalmente Addis Abeba rischia di non essere più, per loro, il viatico verso un “porto sicuro”