Bisogna che l’amministrazione cerchi un dialogo vero con la cultura del progetto, un legame che qui appare reciso in tutti gli aspetti: dall’ideazione, al programma, ai materiali. Come fare? Creando task force, con politica, cittadinanza e progettisti insieme

Nei pressi di ponte Marconi a Roma, presso il Lungotevere Pietro Papa nel quadrante sud occidentale della città, a diversi chilometri dal centro in un’area ex industriale densamente edificata a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, si è compiuta in questi giorni una vicenda che ha un alto valore esemplificativo.
Per comprendere bisogna mettere insieme due fatti. Da una parte vi l’inaugurazione di “Tiberis. La Spiaggia di Roma”, di cui tutti i media, la maggior parte spietatamente, si sono occupati a cominciare dal 4 agosto, il giorno della inaugurazione, e non c’era neanche questa volta la sindaca. Dall’altra la vicenda dello stadio della società giallorossa di calcio arenatosi in procura alla fine di giugno. I due progetti non sono soltanto localizzati nello stesso quadrante della città all’interno del XI Municipio (l’area dello stadio è nella sponda opposta del Tevere ad alcuni chilometri e a tre anse di distanza a valle rispetto a Tiberis), ma sono sistemicamente interconnessi: sono due facce della stessa medaglia, micro e macro si rispecchiano.

Cerchiamo di andare per ordine. È Ambito strategico del Piano regolatore vigente di Roma la valorizzazione delle sponde del Tevere e della presenza del fiume. Non si tratta di un gioco, ma di un atto pubblico importante, un atto formale come un Piano regolatore è il frutto di molto lavoro e di una ricognizione puntuale (i dettagli qui).
Un elemento propulsivo di questa strategia era la proposta della giunta Marino, nel quadro della candidatura olimpica per Roma 2024, di creare un parco fluviale come grande ambito in cui far convergere molte delle iniziative delle Olimpiadi. Si sarebbe potuta sfruttare l’occasione, un poco come la città di Barcellona fece per lo storico recupero del suo lungomare industriale nell’ormai lontano 1992, per mettere mano finalmente alla navigabilità, per il recupero ambientale, per la localizzazione nei pressi del fiume di una serie di attrezzature per il tempo libero e per lo sport. Ormai molte grandi città dimostrano, con il progetto di Hafen City ad Amburgo per esempio, che oggi si hanno tecnologie e strategie per affrontare una serie di temi connessi alla gestione delle acque contemporaneamente a quello dello spazio pubblico. Vi sono piscine e campi galleggianti lungo fiumi e baie, ci sono modi per rendere alcune attrezzature completamente impermeabili ma che consentono l’utilizzo di grandi parti di aree circostanti, vi sono studi che consentono il calcolo di precisi dare avere rispetto alle quote di rischio esondazioni.

Lungo i fiumi, e Roma non fa eccezione, vi sono immensi spazi “brown”, cioè ex industriali che trasformati possono ospitare strutture. Per esempio a Roma la grande area a nord chiamata delle Formaci nei pressi della diga di Castel Giubileo, la zona nei pressi dello scalo del Pinedo a pochi passi da Piazza del popolo, in cui da anni vi è un enorme cantiere abbandonato per un parcheggio mai realizzato, l’area industriale Ostiense su entrambe le sponde del fiume e l’area a nord di ponte Marconi e quella di Tor di Valle a sud sul cui punto tra poco torneremo. Vi sono poi interventi già previsti, ma come al solito mai completamente terminati in alcune aree centrali prima di tutto nella zona archeologica tra l’Aventino e il fiume. Attualmente esistono decine e decine di circoli sportivi a dimostrazione che l’attività per lo sport e per il tempo libero è compatibile con la presenza del fiume.

In questo quadro, non era affatto assurda la proposta di creare un nuovo polo con lo stadio di calcio della Roma nella zona di Tor di Valle, dove insisteva una opera inaugurata nel 1959 e anch’essa legata anche se indirettamente alla vicenda olimpica, completamente abbandonata da decenni. Il velodromo di Tor di Valle fu il frutto della delocalizzazione di quello di Villa Glori per fare posto al Villaggio Olimpico del 1960. Incredibile pensare all’efficienza di quella città a paragone di Tiberis, di oggi, Ma torniamo allo stadio. La grande area golenale era disponibile e l’utilizzo era plausibile anche dal punto di vista del piano regolatore. In questa area si sarebbe potuto realizzare un complesso di attrezzature che se avevano nello stadio della A.S. Roma il nodo fondamentale, poteva vedere crescere attorno un complesso residenziale e commerciale che rendesse possibile un investimento privato in una logica di sviluppo compatibile con gli interessi pubblici. Nella zona a maggiore rischio come si fa in tutto il mondo, basta vedere i bellissimi progetti di Turenscape, era previsto un parco esondabile. La proposta prevedeva anche una immagine decisa dal punto di vista del townscape, con degli edifici alti che caratterizzavano un’area periferica come nodo urbano. È nota la lunga contrattazione tra amministrazione e privati negli anni della giunta Marino con una serie di compromessi faticosamente raggiunti tra cui il fatto che buona parte del costo delle infrastrutture (nuova stazione ferroviaria e un nuovo ponte) sarebbero ricaduti nella sfera dei privati.

La nuova amministrazione della sindaca Raggi ha bloccato la candidatura olimpica. Una scelta devastante, che ha tolto a Roma una ipotesi storica di adeguamento e di sviluppo. La codardia di questa decisione è dimostrata dal fatto che le stesse forze politiche stanno proponendo proprio in questi mesi un’altra candidatura per le Olimpiadi invernali del 2026 talmente confusa e compromissoria che gli stessi proponenti litigano ancora prima di cominciare.
Bocciata sul nascere l’ipotesi olimpica e la possibilità del Tevere di diventare una nuova fenomenale infrastruttura per Roma, verde, ludica e civica, si è arrivati a un gran pasticcio sulla questione stadio. In campagna elettorale si nicchiava che non lo si voleva, e si scelse un urbanista contrario allo stadio l’ingegnere Paolo Berdini, per poi farlo sedere ad un confuso tavolo di trattative. Fortissimo il sospetto che la ricontrattazione volesse far guadagnare crediti alla amministrazione. Come in Italia spesso accade: si riapre anche un accordo chiuso e si ricomincia daccapo, se no come si fa a far pesare il proprio potere? Berdini capisce il pasticcio in cui si deve muovere e si dimette e così si ricomincia, con figure di allarmante trasparenza. Il patteggiamento è all’insegna della rasatura delle cubature, con il bell’esito di far perdere ogni significato all’intero progetto e di rendere desolante il townscape urbano, uguale ai migliaia di metri cubi che hanno invaso la Roma periferica con scatoloni tra l’altro invenduti e soprattutto facendo gravare sul bilancio dello stato, la realizzazione delle infrastrutture necessarie al funzionamento del complesso o ad eliminarle del tutto rendendo il progetto anche dal punto della accessibilità una mezza follia. Il tutto cade tra l’altro nelle mani della magistratura a fine giugno con arresti e denunce che blocca la situazione.

Cosa c’entra tutto questo e perché ricordarlo oggi? Ma perché la miserevole spiaggia con bagni chimici, ombrelloni improbabili, strati di plastica a rullo nelle recinzioni o nelle balze sulle sponde, sediolette in plastica che sembrano uscite da un documentario sui Rom de Roma, crea un senso devastante di desolazione e di tristezza. Un designer di qualunque grado di preparazione strabuzza gli occhi per l’insipienza. La stampa più favorevole ha trovato una anziana di 92 anni che dice che almeno può toccare la sabbia, non farebbe il bagno comunque ed infatti non c’è neanche una piscina prefabbricata. Ma certo ai nostri giovani che vivono esuli a Berlino, ad Amsterdam, a Parigi, a Madrid, a New York, a Seattle vedere Tiberis li fa semplicemente piangere di rabbia e di frustrazione e tanti e tanti lo esprimono in rete lo sconcerto, anzi no, la rabbia.
Neanche il più entusiasta elettore di questa giunta riesce a pensare che la spiaggia di Roma inaugurata a ponte Marconi possa ascriversi a poco meno di una beffa.

Gli aderenti alla giunta si difendono dicendo che l’area era prima una discarica e che le diverse centinaia di migliaia di euro necessari a bonificare le sponde sono un successo e una riconquista per la città. Ma non si restituisce un bel niente se non vi è anche un progetto di spazio, un progetto di uso. L’ingente spesa di bonifica rispetto al nulla di progetto e di ideazione è una aggravante. Una banalità la spiaggia, che chiuderà a ottobre. E poi? Si vagheggiano usi per mettere le mani avanti, ma che succede quando le energie dopo due anni di giunta non sono riuscite neanche a far aprire un chiosco?  L’ideazione è di una povertà disarmante, quella a firma dell’Ufficio speciale tevere del Comune il cui responsabile ha candidamente concesso una intervista al maggiore quotidiano della capitale parlando dell’accordo con Zorro, un gentile organizzatore locale.

Alcuni si riferiscono molto incautamente a Parigi, e al recupero alla vita dei cittadini con i progetti di lungo Senna, ma lì si è messa in atto una complessa strategia che ha visto associazioni, architetti, gestori, promotori di programmi compatibili, concorsi piccoli e grandi, una raccolta di idee e proposte da parte di cittadini, in una azione sinergica guidata da una solida amministrazione pubblica. Ecco una tavola di miei laureandi che la spiegano benissimo.

Bisogna che l’amministrazione cerchi un dialogo vero con la cultura del progetto, un legame che qui appare drammaticamente reciso in tutti gli aspetti: dall’ideazione, al programma, ai materiali. Come si dovrebbe fare per ricominciare? Nello stesso modo in cui sempre si ricostruiscono i territori devastati: vi ricordate i monasteri, vi ricordate i pool antimafia, vi ricordate le squadre speciali, sapete del programma “Bollenti spiriti” della Regione Puglia? Si devono creare piccole task force: nuove, vitali, sinergiche indipendenti dalle logiche burocratiche, amministrative, sindacali e di asservimento politico. Ciascuna task force deve avere tre componenti se no il sistema non è vitale. Ci deve essere un elemento propulsivo e protettivo della politica, ci deve essere almeno un membro delle associazioni di cittadini, ci deve essere almeno un uomo di cultura e progettista. Questo è il minimo.

Queste sono le tre aree che servono: cultura, politica, cittadinanza insieme, il triangolo del vivente, lo chiamo. E da lì, a poco a poco, si ricomincia, innestando a rete gli accordi con gli altri, i tecnici, gli enti, la burocrazia eccetera. Ma il nucleo ideativo è “solo” composto da queste tre forze se no guai, è lo stillicidio, è il veto incrociato, è il ribasso, è il compromesso sino agli strati di plastica di Tiberis. Alla task force si danno ambiti reali di interventi, si dà potere per agire, non si ha paura ma si protegge dall’interno e dall’esterno. Attenzione, mica inventiamo l’acqua calda è cosi che fanno tante e tante situazioni anche in Italia! Quello che è evidente negli esiti a Roma, al di la della buona volontà e dell’impegno, è stato un lavoro non ben condotto e che quindi fa fare più fatica del necessario e alla fine genera sconcerto da ogni angolo visuale. Se Milano ha come ultimo episodio del suo grande rilancio urbano uno spazio pubblico vibrante grazie ad un forte rapporto pubblico privato con l’Apple store aperto h24 a Piazza Liberty, Roma risponde con questa tristissima spiaggia. Sarà l’ultima di una amministrazione cosi incredibilmente deludente che ha peggiorato quasi ogni aspetto della vita cittadina? Sarà l’ultima di Raggi e della sua giunta?

Antonino Saggio è architetto e urbanista, docente di Progettazione architettonica e urbana all’università La Sapienza di Roma. Qui il suo progetto Tevere cavo