Il 21 agosto 1968 i carri armati sovietici mettevano fine al tentativo di rinnovamento del popolo cecoslovacco. Alexander Dubček e il suo “socialismo dal volto umano” non potevano essere tollerati da Brèžnev. E fu così che i praghesi dettero vita a un boicottaggio silenzioso

Cinquant’anni sono trascorsi dall’occupazione russa della Cecoslovacchia, il 21 agosto 1968, dopo il tentativo dei cecoslovacchi di conquistare una nuova democrazia, il “socialismo cecoslovacco”, dove il potere assoluto del Partito comunista, ruolo che deteneva dal colpo di Stato del 1949, era ridimensionato e circoscritto all’ambito politico. In quel periodo due avvenimenti crearono la premessa di un possibile cambiamento. Al congresso degli scrittori a Praga, il 29 giugno 1967, i relatori, coraggiosamente, chiesero un ritorno alla libertà di espressione e democrazia esistenti prima della seconda guerra mondiale. Il secondo fu quando gli studenti dell’Università Carolina a Praga, denunciando una cattiva gestione delle risorse, organizzarono una manifestazione il 31 ottobre. In questo clima, il 5 gennaio 1968 fu eletto segretario del partito lo slovacco Alexander Dubček, l’uomo che interpretava il desiderio di cambiamento del Paese e il superamento del modello socialista russo, come già aveva preannunciato in un articolo pubblicato nel dicembre ’67 sulla Pravda di Bratislava. Il “socialismo dal volto umano” accese gli animi. Nel marzo del ’68, gli studenti scesero di nuovo in piazza con la richiesta di mettere l’uomo al centro della società e non il partito. Presto i comizi studenteschi entrarono negli stabilimenti industriali, tra i compagni lavoratori.

A Est qualcosa stava cambiando. Mosca e i Paesi alleati, guardavano preoccupati al silenzio complice dei politici cecoslovacchi, Dubček in testa, mentre la folla viveva un euforico ottimismo. Brèžnev non poteva tollerare una tale protesta contro l’Unione Sovietica e lo dimostrò, alla fine di giugno. Quando, insieme ai fratelli del Patto di Varsavia, condusse delle manovre militari in Cecoslovacchia. Nel frattempo, il manifesto degli intellettuali, le Duemila parole, stilato dallo scrittore Ludvík Vaculík, fu visto dal Cremlino come un preciso segnale rivoluzionario e fu chiaro a Brèžnev che ormai Dubček non controllava più il partito. Il piano di Mosca era pronto, il motivo era esplicito. A luglio del ’68 ci fu un ultimo incontro fra Brèžnev e il Politburo sovietico e Dubček insieme al Presidium cecoslovacco (organo decisionale del Comitato centrale del Partito comunista, ndr), alla stazione di Čierna Nad Tisou, paese alla frontiera tra la Cecoslovacchia e l’Unione Sovietica. Le delegazioni arrivarono su due convogli, all’interno dei quali si incontravano, e ogni sera il treno sovietico faceva ritorno in territorio russo. L’atmosfera di apertura sembrava avesse raggiunto un compromesso. Ma era l’inizio della fine. «La notte del 20 agosto, l’ultimo giorno di vacanza per la mia famiglia – racconta Tomáš Jelínek, firmatario della Charta 77 che all’epoca aveva 12 anni -, si…

L’articolo di Cecilia Chiavistelli prosegue su Left in edicola fino al 23 agosto 2018


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