Stefano Cucchi, quella mattina a piazzale Clodio, diceva di avere dolori in fondo alla schiena e alle gambe. Camminava curvo, anzi storto, appoggiandosi al muro per scaricate parte del peso sul muro, non reggeva il passo degli altri, chiese un farmaco che prendeva abitualmente, per andare in carcere nemmeno lo ammanettarono, così stabilì il caposcorta, perché non si sarebbe potuto tenere al sedile del pullman, arrivato a Regina Coeli non ce la faceva a salire le scale. Aveva gli occhi gonfi, quello di destra più marcatamente e anche la mandibola dalla stessa parte. Nemmeno che la fece a spogliarsi per la perquisizione di rito, né a chinarsi, eppure ci provava. Tutti gli chiesero cosa gli fosse successo, meno la giudice che lo spedì in galera anche con le carte sbagliate (risultava essere un albanese di sei anni più grande e senza fissa dimora), meno l’avvocato d’ufficio ché i carabinieri non vollero avvisare quello che aveva indicato lui. Scivolato dalle scale, la risposta secca. «Che scale strane», gli rispose Giovanni Battista Ferri, responsabile dell’ambulatorio medico della Città giudiziaria di Roma, sentito oggi nel processo per la morte di Cucchi lo visitò intorno alle 14 del 16 ottobre 2009 (il giorno dopo l’arresto per droga). «Andai nelle celle, mi presentai e gli chiesi cosa potevo fare per lui; la risposta fu che non aveva bisogno di nulla. Lo vidi solo in viso. Nel referto scrissi che aveva lesioni ecchimotiche su entrambi gli occhi e che aveva riferito dolori alla regione sacrale e agli arti inferiori. Secondo me erano lesioni da evento traumatico, e dal dolore sembravano lesioni recenti, ma lui rifiutò di farsi visitare». E alla richiesta sul come si fosse procurato quel dolore, la risposta fu «che era caduto dalle scale il giorno precedente, anche se quella risposta non mi convinse. Comunque, le sue condizioni di salute consentivano di andare in carcere; era idoneo per il carcere».
«Ha parlato con l’espressione in volto apparentemente priva di qualsiasi emozione – scriverà dopo l’udienza Ilaria Cucchi – quasi con un mezzo sorriso, non di compiacimento per il dolore di mio fratello ma per il proprio ruolo. Quando però il mio avvocato (Fabio Anselmo, ndr) gli ha chiesto cosa avrebbe fatto se si fosse trattato di un suo paziente del suo ambulatorio privato lui ha risposto che “tra gli altri avrebbe ordinato accertamenti radiologici”. Ma Stefano Cucchi evidentemente non era un suo paziente perché lo ha mandato in carcere. Allora mi chiedo: ma cos’era per lui?».
Strane scale e strana storia quella di Stefano Cucchi che morirà sei giorni dopo lontano dagli occhi di tutti eccetto quelli dei sanitari del Pertini, repartino penintenziario. Per quei medici è in corso il terzo processo d’appello. L’udienza di oggi, la prima dopo la ripresa estiva, conferma quanto fosse malconcio dopo poche ore in balìa di alcuni carabinieri i cui difensori sembrano puntare tutto sulla magrezza dell’arrestato che, invece, anche quella sera era stato ad allenarsi, era un pugile, come rivela la strisciata della carta magnetica della palestra. Tutti i testimoni, anche se qualcuno ha una memoria più reticente di altri, confermano la gravità delle sue condizioni smentendo i periti del primo processo, quello che provò a incastrare alcune guardie penitenziarie, quello che aveva avvolto i carabinieri in un cono d’ombra che a molti sembrò essere stato disposto dall’allora ministro della difesa del governo Berlusconi: Ignazio La Russa. Proclamò che l’Arma era estranea ai fatti e ci sarebbero voluti altri nove anni per un Cucchi bis contro cinque carabinieri, tre imputati per omicidio preterintenzionale.
Prima del dottor Ferri è stato sentito anche un ex detenuto, portato nelle celle di piazzale Clodio lo stesso giorno di Cucchi dopo un arresto per spaccio: ha sentito Cucchi bussare alla porta della cella. «Chiedeva la terapia e il metadone, chiamava le guardie, ma non venivano. E allora qualcuno dalle celle disse di non chiamarle “guardie”, ma “agenti”. E quando comunicò a chiamarli così, loro arrivarono».
E, chissà perché in caserma rifiutò «di andare in ospedale dicendo di non aver bisogno di nulla»; in tribunale non «si reggeva in piedi e camminava male. Era evidente che era stato pestato», hanno ripetuto, dal banco dei testimoni, nove persone, tutte già sentite nel precedente processo. In aula si è partiti dalla presenza di Cucchi nella caserma dei carabinieri di Tor Sapienza dopo l’arresto, quando le sue condizioni di salute consigliarono l’intervento di un’ambulanza. «Trovai Cucchi dentro una cella poco illuminata. Era disteso sul letto, rivolto verso il muro e coperto fino alla testa. Lo salutai, e mi rispose “Non ho bisogno di niente”», ha detto in aula l’infermiere Francesco Ponzo. «Lo vidi in viso per pochi secondi, aveva pupille normali e una ecchimosi nella zona zigomale destra. Gli dissi “Vieni con me, andiamo in ospedale. Se hai qualche tipo di problema, poi magari ne parliamo in separata sede”. Per la mia insistenza, lui si irritò. Alla fine risalimmo, prendemmo i dati e andammo via». Ma per l’equipaggio del 118 sembra che quella notte fosse una notte come tante altre, risaliti in ambulanza, non avrebbero fatto alcun commento.
La parte finale dell’udienza è stata dedicata all’esame degli agenti della Penitenziaria incaricati di portare i detenuti dal tribunale in carcere. «Vidi per la prima volta Cucchi alle celle d’uscita. Non si reggeva in piedi, camminava male, in viso era parecchio rosso, aveva segni evidenti di occhiaie profonde – ha detto l’ispettore superiore Antonio La Rosa – secondo me quel ragazzo aveva avuto qualche problema, secondo la mia esperienza aveva preso qualche schiaffo, qualche pugno. Era evidente che era stato pestato». «Ma quale caduta dalle scale, lui ha avuto un incontro di boxe, solo che lui era il sacco», avrebbero scherzato quelli che tornavano con lui verso Regina Coeli.
Fuori dalla Città giudiziaria, trecento persone, tutte giovanissime, per un sit-in scaturito dopo il successo della proiezione del film “Sulla mia pelle” all’università, promossa da Sapienza clandestina con l’adesione di Alterego Fabbrica dei diritti e Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa. Riccardo Bucci, per conto di entrambe le associazioni, sta curando “Vlad”, il vademecum per intervenire tempestivamente in caso di abusi. È stato lui, intervenendo al sit-in, a spiegare come si sta mettendo il processo che riprenderà il prossimo 11 ottobre.