Nel Parlamento europeo uscente i gruppi dei Socialisti e democratici, Sinistra unita europea e Verdi hanno il 39,51%, una percentuale inferiore a quella raccolta in Italia dal solo membro del Pse, il Pd svettante solitario al 40,81%, superato soltanto dai laburisti maltesi con il 53,39%, ma appena 134.462 voti: un niente rispetto ai 11.203.231 voti di Renzi alle elezioni europee 2014, che supera persino gli 8.807.500 della Union della Merkel, il partito leader del Ppe. Pse e Ppe con 410 seggi su 751, cioè il 54,8% si spartiscono i posti più rilevanti. Il Pse con 40.202.068 voti è il primo partito europeo avendo due milioni di voti in più del Ppe. Preistoria, proiettando i risultati delle elezioni nazionali degli ultimi cinque anni il predominio Ppe-Pse è finito. Il primato in voti del Pse con la scomparsa del Psf e la Brexit, che si porta via 4.020.646 voti laburisti, è un ricordo di un passato che non tornerà tanto presto, forse mai. A sinistra, se Sparta piange, Atene non ride. La Sinistra unita europea, che era già un’alleanza, che nascondeva differenze e diffidenze, è ormai divisa da Mélenchon e dalla sua avversione per Tsipras. La stessa esperienza di Syriza simbolo di un’altra sinistra possibile ha due figure simboliche alternative in Tsipras e Varoufakis. Ma il fatto vero è che le perdite dei partiti del Pse non sono state recuperate a sinistra se non in Grecia e Spagna, ma anche in questi casi non totalmente e la somma di Pasok e Syriza o di Psoe e Podemos non raggiunge quella Pasok e comunisti e Psoe e Pce nei loro tempi migliori. In questo quadro la situazione dell’Italia appare la più desolante: una volta era composta da socialisti e comunisti che nel 1946 erano il 33,73%, e dovettero attendere il 1958 per avvicinarsi a quella percentuale stando all’opposizione. Ancora nel 1963 Pci e Psi su posizioni in contrapposizione avevano il 35,15%. Le vicende successive a partire dal 1992 cambiano politicamente la sinistra storica con la scomparsa dell’area socialista. La vittoria dell’Ulivo nel 1996 ha solo rinviato i problemi e l’ultima illusione è stata la vittoria del 2013, grazie ad una legge elettorale incostituzionale. In quella legislatura si è consumata la rottura tra la sinistra, in realtà geneticamente mutata in un ibrido di centro-sinistra, e la Costituzione e la democrazia parlamentare. La responsabilità non è solo del Pd renziano, a sua volta prodotto della conversione alle leggi elettorali maggioritarie: vincere senza avere la maggioranza era più importante di saper per cosa. Non si perseguiva un’alternativa politica al neoliberismo, ma neppure l’attuazione della Costituzione, dopo la vittoria al referendum del 4 dicembre. Dovrebbe essere evidente anche senza gli studi dei flussi dell’istituto Cattaneo, che nuovi elettori di M5s e Lega vengano da un deluso fronte del Noi. È credibile una sinistra che elegge suo esponente di punta chi – come presidente di una Camera – ha inferto un colpo senza precedenti alla centralità del Parlamento privilegiando l’esecutivo e proprio su una legge elettorale per di più incostituzionale? Non si riacquista affidabilità se non si riesce ad indicare un proposta che sia una chiara, comprensibile e realista a problemi importanti come le politiche migratorie o la lotta alla disoccupazione. Una sinistra capace soltanto di denunciare i futuri prevedibili attacchi alla Costituzione, ma non come darvi attuazione a cominciare da una propria riforma che anticipi una legge sui partiti politici come richiede l’articolo 49 della Carta, o invertire la tendenza alla privatizzazione a cominciare dalla gestione delle autostrade, non necessariamente con un intervento statale, ma pubblico in senso lato comprese le comunità di lavoratori o di utenti (art. 43 Cost.). Invece ci si divide tra sovranisti ed europeisti, come se la democrazia fosse solo nazionale e l’Europa ideale quest’Europa.
Ci si divide fra sovranisti ed europeisti, come se la democrazia fosse solo nazionale e questa Europa fosse l’ideale