“Prof, ma lei cosa pensa del caso Cucchi?”. I ragazzi oggi soffrono un vuoto di politica (nel senso più specifico del termine), ma non smettono di avere occhi per vedere quello che accade. E quando si tratta di casi singolari l’attenzione aumenta. è più facile immaginarsi di provare quel che ha provato un altro ragazzo che non proiettarsi in scenari più astratti, dove a lavorare è più la mente del cuore. Così, casi come quello di Cucchi stimolano la curiosità: com’è possibile essere vittima di chi ti dovrebbe proteggere? “Cosa sapete, voi?”, chiedo. “Lo hanno ucciso”, dice uno. È il giorno della deposizione di un carabiniere che finalmente ammette il pestaggio letale. “Cosa avreste fatto voi se aveste assistito a un fatto del genere?”. “Lo avrei detto”. Ecco, perché per anni e anni c’è stata omertà? Perché nessuno ha detto? Il nome di Aldrovandi viene richiamato per associazione, non tutti lo conoscono. Anche in quel caso solo l’ostinazione di un familiare ha avuto ragione di quei silenzi complici. Ma allora è un fatto di responsabilità individuale o ha a che fare con qualcosa di più grande, di strutturale? Racconto delle tante storie che ho ascoltato negli anni, a cominciare da quelle dei centri di detenzione per immigrati irregolari su cui scrissi un libro dodici anni fa. Quel libro aveva in esergo la dichiarazione di un ispettore di polizia, di nome Michele Pellegrino, che aveva lavorato in un centro pugliese: “Nessuno sapeva di aver vinto un concorso per fare il guardiano di un lager”, aveva detto, “Facciamo i guardiani di povera gente”. Ecco, dopo quella dichiarazione ebbe un provvedimento disciplinare. Ma per tutti i numerosi casi di pestaggi ai danni di immigrati di cui raccontavo nel libro nessuno è mai stato punito, e nemmeno perseguito. Come d’altronde nel caso delle violenze di Genova, quando i responsabili sono magari stati allontanati dalla città in cui operavano ma pure promossi. Qualcuno dei ragazzi ha visto il film Diaz, e di fronte a quella ferocia esibita c’è poco da parlare. Racconto che quella notte stavo per andare a dormire lì, e solo per un caso andai altrove. Questo richiama il fatto che in Italia non siamo mai riusciti a far passare una norma di civiltà, di responsabilità personale, come il numero di identificazione sulle divise delle forze di polizia. Quanto tutto questo ha a che fare con la storia della nostra Repubblica? Lo storico Ginsborg ha parlato di “continuità dello Stato” a proposito del passaggio tra fascismo e Repubblica, in ordine alla continuità di leggi, istituzioni e personale dell’amministrazione, compresi prefetti, questori e uomini della polizia. è un elemento utile per capire che ciò di cui stiamo parlando va inscritto in una prospettiva di lungo periodo? Stavo facendo politica, direbbe Salvini. Sì, e lo rivendico. Ma non politica in senso partitico. Faccio politica nel senso più vero del termine, nel senso aristotelico, perché nessuno vive rinchiuso nel suo orticello ma è parte di una comunità e ha precise responsabilità etiche nei confronti degli altri esseri umani. Si tratta, semplicemente, di garantire i diritti sanciti dalla Costituzione. Articolo 2: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo». Articolo 3: «Tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge, senza distinzione (…) di condizioni personali e sociali». Articolo 13: «è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà». Ripartire dalla Costituzione come patto fondativo della Repubblica oggi appare più che mai necessario. Meditare insieme su quegli articoli legandoli non solo ai fatti di cronaca e di attualità, ma anche agli stessi eventi della storia passata. Riconoscere in quella carta fondativa della Repubblica dei valori e dei principi di giustizia universali, e riconoscere quanto si discostino da essi tutta una serie di pratiche politiche e sociali del presente. E poi capire, magari, che trascendono la legge stessa, in quanto frutto della volontà comune di uomini e donne che nella storia hanno agito in quanto forza collettiva per affermarli. [su_divider style="dotted" divider_color="#d3cfcf"]

L'editoriale di Marco Rovelli è tratto da Left in edicola dal 19 ottobre 2018

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“Prof, ma lei cosa pensa del caso Cucchi?”. I ragazzi oggi soffrono un vuoto di politica (nel senso più specifico del termine), ma non smettono di avere occhi per vedere quello che accade. E quando si tratta di casi singolari l’attenzione aumenta. è più facile immaginarsi di provare quel che ha provato un altro ragazzo che non proiettarsi in scenari più astratti, dove a lavorare è più la mente del cuore. Così, casi come quello di Cucchi stimolano la curiosità: com’è possibile essere vittima di chi ti dovrebbe proteggere? “Cosa sapete, voi?”, chiedo. “Lo hanno ucciso”, dice uno. È il giorno della deposizione di un carabiniere che finalmente ammette il pestaggio letale. “Cosa avreste fatto voi se aveste assistito a un fatto del genere?”. “Lo avrei detto”. Ecco, perché per anni e anni c’è stata omertà? Perché nessuno ha detto? Il nome di Aldrovandi viene richiamato per associazione, non tutti lo conoscono. Anche in quel caso solo l’ostinazione di un familiare ha avuto ragione di quei silenzi complici. Ma allora è un fatto di responsabilità individuale o ha a che fare con qualcosa di più grande, di strutturale? Racconto delle tante storie che ho ascoltato negli anni, a cominciare da quelle dei centri di detenzione per immigrati irregolari su cui scrissi un libro dodici anni fa. Quel libro aveva in esergo la dichiarazione di un ispettore di polizia, di nome Michele Pellegrino, che aveva lavorato in un centro pugliese: “Nessuno sapeva di aver vinto un concorso per fare il guardiano di un lager”, aveva detto, “Facciamo i guardiani di povera gente”. Ecco, dopo quella dichiarazione ebbe un provvedimento disciplinare. Ma per tutti i numerosi casi di pestaggi ai danni di immigrati di cui raccontavo nel libro nessuno è mai stato punito, e nemmeno perseguito. Come d’altronde nel caso delle violenze di Genova, quando i responsabili sono magari stati allontanati dalla città in cui operavano ma pure promossi. Qualcuno dei ragazzi ha visto il film Diaz, e di fronte a quella ferocia esibita c’è poco da parlare. Racconto che quella notte stavo per andare a dormire lì, e solo per un caso andai altrove.

Questo richiama il fatto che in Italia non siamo mai riusciti a far passare una norma di civiltà, di responsabilità personale, come il numero di identificazione sulle divise delle forze di polizia. Quanto tutto questo ha a che fare con la storia della nostra Repubblica? Lo storico Ginsborg ha parlato di “continuità dello Stato” a proposito del passaggio tra fascismo e Repubblica, in ordine alla continuità di leggi, istituzioni e personale dell’amministrazione, compresi prefetti, questori e uomini della polizia. è un elemento utile per capire che ciò di cui stiamo parlando va inscritto in una prospettiva di lungo periodo? Stavo facendo politica, direbbe Salvini. Sì, e lo rivendico. Ma non politica in senso partitico. Faccio politica nel senso più vero del termine, nel senso aristotelico, perché nessuno vive rinchiuso nel suo orticello ma è parte di una comunità e ha precise responsabilità etiche nei confronti degli altri esseri umani. Si tratta, semplicemente, di garantire i diritti sanciti dalla Costituzione. Articolo 2: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo». Articolo 3: «Tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge, senza distinzione (…) di condizioni personali e sociali». Articolo 13: «è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà». Ripartire dalla Costituzione come patto fondativo della Repubblica oggi appare più che mai necessario. Meditare insieme su quegli articoli legandoli non solo ai fatti di cronaca e di attualità, ma anche agli stessi eventi della storia passata. Riconoscere in quella carta fondativa della Repubblica dei valori e dei principi di giustizia universali, e riconoscere quanto si discostino da essi tutta una serie di pratiche politiche e sociali del presente. E poi capire, magari, che trascendono la legge stessa, in quanto frutto della volontà comune di uomini e donne che nella storia hanno agito in quanto forza collettiva per affermarli.

L’editoriale di Marco Rovelli è tratto da Left in edicola dal 19 ottobre 2018


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