Piero Calamandrei così scriveva: «Facciamo l’ipotesi che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza… Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali». A giorni si aprirà una pessima pagina per la scuola pubblica italiana, per gli studenti e per gli insegnanti perché il Consiglio dei ministri approverà un disegno di legge che delegherà, su ventitré materie, la competenza alla Regione Veneto. La più importante delle quali è l’istruzione. Il ddl andrà in Parlamento per la conversione che avverrà a passo di corsa perché il Parlamento potrà solo approvare o bocciare. Considerato che il “contratto di governo” – con buona pace anche in questa materia dei grillini – al punto 20, assume la regionalizzazione come questione prioritaria così come la chiusura delle trattative aperte fra Stato e singole Regioni (Veneto, ndr), l’esito è scontato. Che cosa comporterà questa devoluzione? Sull’istruzione il Veneto riceverà competenze su programmi scolastici, organizzazione, assunzioni e trasferimenti che saranno solo locali. Pertanto, un aspirante insegnante potrà partecipare ad un concorso in Veneto ma dovrà sapere che potrà chiedere di trasferirsi solamente da Padova a Belluno, non potrà lasciare il Veneto se non licenziandosi. La scuola italiana da funzione statale diventerà una funzione regionale, al pari degli orari dei mercati rionali. Tutto questo per perseguire il principio «della valorizzazione del capitale umano in funzione della competitività del sistema economico e sociale veneto». Non giriamoci intorno: siamo di fronte ad un provvedimento eversivo e secessionista. Per tre ordini di ragioni. La prima è che aumenterà la diseguaglianza nel nostro Paese, a partire dal fatto che le competenze del Veneto sull’istruzione vengono affidate senza che lo Stato abbia «determinato i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». In assenza di un comune denominatore che garantisca la cittadinanza universale è evidente che si sgretola la Repubblica «una ed indivisibile». La seconda è che sarà il gettito fiscale, d’ora in poi, a determinare il livello dei diritti, non l’essere cittadino nel nostro Paese con buona pace del «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale». La ripartizione delle risorse finanziarie avverrà non in base al numero di persone da istruire ma in base alla ricchezza dei territori. Quindi, una scuola di mille studenti a Padova riceverà fondi in base al Pil del Veneto ed una di mille studenti in Calabria in base al Pil della Calabria. Ovvero la metà. Senza alcuna tutela circa il livello essenziale di servizio da garantire ovunque sul territorio nazionale e colpendo con brutalità il principio secondo cui «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini…». La terza è che libertà di insegnamento e programmi o sono nazionali o la piega inevitabile del localismo condizionerà l’una e gli altri. Non avverrà tutto in un momento, avverrà passo a passo ma la volontà di voler utilizzare il sapere e chi lo eroga per rinsaldare il sistema di valori di chi governa un territorio è chiarissima e, in questo nuovo quadro, inevitabile. Ma, davvero, si può pensare che l’aver messo la «libertà d’insegnamento» nella Costituzione non abbia rappresentato la giusta preoccupazione di proteggere questa libertà da chi esercita il potere che, tanto più è vicino territorialmente, tanto più è forte? Siamo di fronte ad un testo eversivo e secessionista che impone ad ognuno di noi di scendere in campo per difendere l’unità del Paese ed il progetto di vita dei nostri figli e nipoti.
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Enrico Panini è assessore al Bilancio nella giunta di Luigi de Magistris ed è responsabile nazionale del movimento DemA (Democrazia e autonomia)